il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2023
Intervista a Luc Merenda
Con lui il sole è rosso, Milano trema e il poliziotto è marcio; la città gioca d’azzardo, è pure sconvolta, piena di cattivi pensieri, magari per colpa della banda del Trucido. Però Napoli si ribella, è dura a morire.
E tra pistole, inseguimenti, scazzottate, salti tra i tetti degli autobus, qualche nudo, denunce e marciume istituzionale, c’era sempre Luc Merenda con i suoi capelli chiari pettinati da una parte (“non li sopportavo”), le sopracciglia folte, il cognome che sembra un ossimoro rispetto ai suoi ruoli e il bollino di re del poliziottesco in comproprietà con Maurizio Merli (“però lui ne ha girati di più”).
Lo scorso 3 settembre ha compiuto 80 anni e la sua vita è anche più avventurosa dei film: tutto senza limiti, timori o preclusioni. Solo un grande rifiuto: “Non amo le mie foto, infatti non ne ho”.
Eppure il nostro Umberto Pizzi l’ha beccata…
Sì, per due serate al Jackie O’ (locale di Roma, ndr). Basta. Non troverà altro.
Poche.
Non mi andava, già allora non le sopportavo, non sopportavo il fatto che bastasse salutare una donna per urlare al fidanzamento.
Quindi non guarda le sue immagini da ragazzo.
No; (sorride) quando sono arrivato in Italia avevo già partecipato a una decina di film in Francia mentre qui ne ho aggiunti una quarantina. Eppure non ho un solo scatto di set.
Era un fotomodello.
Quando sono andato a New York avevo solo un vecchio book di foto; negli Stati Uniti non possedevo neanche la Green Card, con la mia agenzia che mi sollecitava a presentare richiesta e io rispondevo: “Non importa, se ne ho bisogno ci pensa mio zio”.
Era vero?
In teoria sì: per otto anni è stato ambasciatore a Washington.
Perfetto.
La mia era una scusa, a lui non ho mai chiesto nulla.
Come mai?
Era un uomo troppo di destra e non parlo con certa gente; (sorride) poi era convinto che mi scopassi sua moglie.
Aveva ragione?
Mai successo.
Com’era la New York di quegli anni?
Stupenda, magnifica, divertente, imprevedibile. Potevi incontrare e passare la serata con ogni genere di umanità. E poi arrivavo da un Paese del cavolo come la Francia.
Tranchant.
Mai amata, soprattutto perché dai 2 ai 14 anni ho vissuto in Marocco, tra spiagge, senza un giorno di pioggia, caldo, divertimento e la totale libertà: a dieci anni già guidavo la macchina e a 12 sono entrato in un harem.
Un harem?
Una volta i miei genitori mi hanno portato da un loro amico, un vero pascià, e proprio quel giorno era organizzata la sfida ai montoni. Il gioco era quello di provocare la furia dell’animale e dopo i giovani avevano il diritto di affrontarlo.
Come?
Bisognava attraversare una piazza: se il montone ti beccava erano cavoli; (pausa) pieno di adrenalina ho affrontato il pascià: “Voglio provare”. “Sei piccolo”. “Va bene, ma voglio affrontarlo”. Allora lui va da mio padre, gli spiega le mie intenzioni. Papà mi guarda. “Hai visto il pericolo?”. “È questo che mi eccita”. “Allora vai”.
E… ?
Ci sono riuscito. A quel punto il pascià torna da me: “Adesso sei un uomo. Seguimi”. Qualche passo, poi apre una porta e mi trovo dentro la sua reggia, dritto nel suo harem: “Occupatevi di lui”.
E lei?
(Sorride) All’inizio non è stato semplice, ero come un affamato con davanti cinquanta piatti di prelibatezze; ma ho fatto abbastanza per avere voglia di tornare.
I suoi?
Il pascià aveva raccontato tutto a mio padre e lui, sornione: “Ti sei divertito con il montone?”. “Stupendo”. “Vuoi tornare?”. “Volentieri”. “Solo se cresce la tua media scolastica”. Per la prima volta ho iniziato ad andare benissimo.
Sua madre?
Non sapeva nulla, era bigotta, cercava sempre di portarmi in chiesa; quando a 14 anni sono arrivato a Parigi trovavo assurdo tutto, anche non poter guidare.
Quindi?
Rubavo le macchine delle mamme dei miei amici e il sabato portavo tutti in giro.
E le donne o le ragazze…
Dal Marocco in poi non ho mai più smesso; (pausa, diventa serissimo) non ragiono solo con l’uccello, le donne devono colpire pure la mia testa e il mio cuore, altrimenti niente.
Mai, mai…
Solo una volta dopo cinque settimane di astinenza per colpa di un film.
Ha mai provato paura?
Varie volte, ma l’ho sempre vinta, perché mi eccita, come nel caso del montone.
Ha mai perso?
Più che altro ho rischiato di morire; (cambia tono, espressione, posizione. Torna guascone) quando mi hanno operato di protesi d’anca, in ospedale, ho trovato alcune sedie a rotelle elettriche e ho organizzato una gara tra pazienti. Fino a quando è arrivato il primario: “Che combinate?!”. E io: “Colpa mia”. “Vi caccio!”. “Non può, altrimenti non la pago”. “Lei è scemo, mai più” (Di sfuggita guarda la sua foto appoggiata su un davanzale, precaria).
Davvero non le piacciono i suoi vecchi scatti?
Mi fanno schifo; per decenni non ho neanche guardato i miei film: al tempo non mi sopportavo fisicamente e per questo mandavo i miei amici al cinema per capire com’era andata.
La maggior parte sono poliziotteschi…
Alla fine non ne potevo più, non volevo ruoli da commissario, altrimenti facevo prima a entrare in polizia; e poi mi sono rotto sul set de La banda del Trucido tanto da portare la produzione in tribunale: da allora ho il 30 per cento di invalidità permanente.
Come è accaduto?
In una scena d’azione, con me ammanettato, si sono dimenticati di applicare le norme di sicurezza: il botto è stato talmente forte che credevano fossi morto o paralizzato, mentre ero talmente incazzato che mi sono alzato per picchiare chi aveva sbagliato; (pausa) il giorno dopo, nonostante i dolori, ho girato un’altra scena pericolosa, con un salto tra due autobus in movimento.
E poi?
Mi sono messo a letto e dopo tre mesi ho scoperto la situazione disastrata del mio collo con il lato sinistro del corpo rovinato; il processo ha fatto giurisprudenza.
Ha segnato una strada…
Da quel processo l’attore è parificato a un comune lavoratore, però mi è costato caro, perché da allora i produttori mi hanno bollato come pericoloso; all’improvviso non ero più l’oriundo simpatico, ma lo stronzo.
Gambe tagliate.
In primis per l’aver rifiutato altri poliziotteschi, poi per il processo; Luciano Martino, uomo stupendo, mi aveva avvertito: “Ma che ti frega, accetta, prendi i soldi”.
Ha guadagnato molto?
No, al massimo sono arrivato a 42 milioni di cachet, ma la metà di quelli li ho investiti nel film stesso: mi ero rotto le palle di vedere i tanti, troppi soldi sottratti alla pellicola per affari propri, quindi avevo deciso di dare un segnale e ottenere un film migliore.
Li ha recuperati?
Persi; (sorride) in quel film recitava un tizio, uno simpatico; ci conosciamo meglio, parliamo e mi spiega che nella vita normale fa il recupero crediti. Così tempo dopo lo chiamo e gli spiego il problema dei 21 milioni (resta zitto)…
E lui?
Mi ha spiegato come li avrebbe recuperati; mi sono spaventato: “Non fa niente!”.
Insomma, non ha messo nulla da parte…
Per il primo film ho preso cinque milioni, per il secondo tre; non ho mai ottenuto grandi ingaggi, quando c’erano colleghi che ne incassavano cento o duecento.
Ne La banda del Trucido c’era Tomas Milian. Secondo Galliano Juso, Milian la soffriva.
La prima volta che l’ho incontrato era con Sergio Martino e Sergio mi prepara: “Fai attenzione, Tomas è particolare, è fragile”. Allora sono stato più volte carino, ma lui niente, sempre ombroso, allora a un certo punto gli ho detto au revoir; ne La banda del Trucido siamo entrambi commissari eppure non ci incontriamo mai: sono due film in un film solo.
Come mai?
Mi hanno spiegato che gli dava fastidio la mia bellezza, quindi non voleva incontrarmi.
La sua bellezza le ha creato altri problemi?
Sì, ma non è un argomento che mi piace.
Perché?
Non voglio apparire come uno di quei vecchi attori che si masturbano mentalmente sotto il concetto “la mia bellezza mi ha fatto soffrire”.
Non le abbiamo chiesto se l’ha sofferta, ma se gli altri l’hanno sofferta.
Per tre volte non ho girato un film perché la protagonista non mi ha voluto.
Temevano le oscurasse?
(Si incupisce) Tutte e tre erano famose. Tre poverette.
In Francia ha combattuto i medesimi problemi?
Anche lì non è andata sempre liscia, ho incontrato almeno un paio di grandi attori con atteggiamenti da stronzi verso i più giovani; (pausa) non tutte le star sono delle vere star.
Tradotto?
Molti hanno paura della propria ombra, di perdere tutto all’improvviso; si sentono insicuri e minati, figuriamoci quando arriva uno più giovane; poi ci sono i fuoriclasse e penso a Mel Ferrer, Richard Conte, Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Corrado Pani o Umberto Orsini. Tutti gli altri meritano le frustate sul culo.
Orsini è un bello sicuro di sé…
Un grandissimo attore, persona vera, e siamo sempre amici; a quella lista aggiungo Cassavetes e Ursula Andress. Ursula adorabile; (ride) con Ursula eravamo insieme in Sole rosso: alla fine delle riprese noi aspettavamo l’autobus per tornare al villaggio, mentre Alain Delon passava da solo, in limousine, e ci faceva mangiare la polvere.
Lei a Roma…
Il periodo non era semplice ma ho cercato di girare film che sarebbero restati e in due o tre casi ci sono riuscito; penso a Il poliziotto è marcio o Milano trema…
Veniva controllato dai servizi segreti?
Su Italia ultimo atto, in cui veniva ucciso un ministro, qualcuno mi ha chiesto perché girassi quel tipo di film…
Gli uomini ci provavano con lei?
Blandamente, ma capivano subito che non era il caso.
Si è divertito?
Molto, perché i film avevano successo, però ero consapevole che tutto sarebbe finito.
È stato assalito dai fan?
In Francia ho partecipato a una fiction da cinque milioni di spettatori, e venivo assalito in maniera un po’ fastidiosa, mentre gli italiani sono sempre stati simpatici, al massimo mi sono intossicato di caffè…
Metafora?
No, problema reale: sono arrivato ad accettarne una quindicina al giorno, tanto da finire dal medico perché non dormivo più.
Lei franco-marocchino ha recitato con una franco-algerina…
La Fenech? Superdonna, dava la sensazione di chi sapeva esattamente dove andare; (ride) sono pieno di ammirazione e di invidia per lei: si è sempre innamorata di uomini potenti.
Ha girato per Brass in Action!
Uno dei tanti sforzi per fuggire dai poliziotteschi; Tinto e Tinta, due intellettuali che non ti mettevano in difficoltà ma a un certo punto la distribuzione aveva mollato il film, tutti disperati, era la fine. Per caso ne ho parlato con mio zio…
Il diplomatico?
No, un altro; aveva appena incassato i soldi dell’assicurazione per una barca sfondata. Decise di investire. Ha perso tutto. Più sentito.
Come attore, oggi quando si rivede si piace?
Mi sopporto.
Oggi a chi dice grazie?
(Sorride, a lungo) A chi mi ha riaccolto a Roma, al gruppo di Hollywood party, da Steve Della Casa ad Alessandro Boschi (su Radio3); con Francesca Levi, la curatrice della trasmissione, stiamo insieme e mi colma d’amore; poi è stato bello ritrovare la famiglia Silvestri: Daniele l’ho conosciuto da bambino quando teneva già la chitarra in mano.
Lei chi è?
È una domanda che mi pongo ogni mattina. Lasciatemi un po’ di tempo per capire…