il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2023
La grazia nessuno la può comprare
Anche le guerre stufano. E ancor più stufa doverle descrivere o commentare. Se poi ci si inserisce nel filone diplomatico è una frustrazione senza pari. Nessuna guerra è mai finita per gli sforzi diplomatici. La guerra è come una partita di calcio in cui manca il pareggio. C’è uno che vince e uno che perde. E i diplomatici, di qualsiasi Paese, sono un corpo di fannulloni, molto ben pagati e oltretutto discendenti, in genere, da nobili lombi.
Io voglio quindi oggi parlare di qualcosa di più umano: la “grazia”. Grazia. Chi non ce l’ha non se la può dare e nemmeno comprare: non si trova nei supermarket del beauty e del fitness. È un che di impalpabile, di ineffabile, di difficilmente definibile, come il carisma. La sola cosa certa è che sta al lato opposto della volgarità. È un’armonia fra interno ed esterno, fra essere e avere, fra come siamo e come ci presentiamo, laddove la volgarità è, a tutti i livelli, un uscire dai propri panni. Per questo un primitivo può essere rozzo ma mai volgare. Ha grazia, se si veste all’occidentale la perde. La volgarità è data da un contrasto, da qualcosa che stride. L’uomo moderno è quasi sempre volgare perché vuol essere diverso da quello che è e cercando in tutti i modi di far dimenticare la propria animalità finisce per sottolinearla. Lo si vede bene osservando una persona in strada che parla al cellulare: sembra una scimmia vestita e ammaestrata. Il gap fra l’altissimo contenuto tecnologico dell’oggetto, che può essere considerato un componente dell’abbigliamento, e la cultura e l’antropologia di chi lo sta usando ne evidenzia il carattere animalesco.
Nella grazia c’è qualcosa di primigenio, di infantile, di candido, di casto, di spontaneo, di non lezioso, di non manierato, di non artefatto e, insieme, di malizioso. La grazia, a differenza della bellezza, non è un fatto statico, ma dinamico, si esprime in uno sguardo, in un sorriso, in un gesto, in un movimento e talora anche in un’imperfezione birichina che anima il viso (Venere strabica). Le donne di oggi sono sicuramente più belle, più curate, più levigate, più perfettine di quelle di un tempo, ma raramente hanno grazia. Sono troppo catafratte nei canoni standard della bellezza. Col lifting si può essere belle ma è impossibile avere grazia. Del resto basta pensare che il prototipo attuale della bellezza femminile è la modella: “sotto il vestito niente” come recitava un best seller di qualche anno fa. E la grazia non può prescindere da una illuminazione interiore. Nessuna grazia hanno pressoché tutte le donne dello show business televisivo, in loro c’è sempre qualcosa di falso, di costruito, di artefatto, di plastificato, di inverosimile, una forzatura, un’esagerazione, un’enfasi che disturba e infastidisce.
Peraltro la grazia è stata sempre rara anche fra le bellissime. La giovane Brigitte Bardot aveva grazia, Marilyn Monroe no, era anzi decisamente sgraziata, con quegli sfregi di rossetto, quei tacchi a spillo, quelle tette, quella capigliatura, quell’aria di donna umiliata dalla vita. Aveva il fascino di una domestica in libera uscita. Ava Gardner, una delle donne più belle di tutti i tempi, era troppo statuaria per avere grazia. Rita Hayworth troppo aggressiva. Sophia Loren è destituita di ogni erotismo, qualcuno, forse, la ricorderà nel tragico film Ieri, oggi, domani dove in un négligé nero, ma con una deplorevole mutanda quasi ascellare, tenta inutilmente uno spogliarello davanti a un inerte marcello Mastroianni. Julia Roberts è legnosa nei movimenti, può essere inquadrata solo di viso. Nicole Kidman è, a volte, una discreta attrice, ma, a conti fatti, resta una bella pupattola americana.
Il fatto è che la grazia non si concilia con la vamp. Va ricercata in ambiti più discreti. Grazia, un’indimenticabile grazia, ha Bibi Anderson quando offre il cesto di fragole all’immalinconito Cavaliere nel Settimo Sigillo di Bergman. Ma altre bellissime del regista svedese, come Ingrid Thulin e Liv Ullmann, sono troppo intense, troppo drammatiche, per avere grazia che ha a che fare con la leggerezza. Audrey Hepburn aveva il manierismo della grazia, non la grazia, che non va confusa né con l’eleganza né con la classe in cui c’è inevitabilmente qualcosa di ricercato e di voluto. La grazia non è mentale. È naturale. Grazia ha avuto Stefania Sandrelli – donna che ragiona, benissimo, con i cinque sensi – finché non si è imbattuta nei film di Tinto Brass ed è diventata una bellona come tante.
Grazia hanno certi monelli dall’aria ribalda. Una grazia canagliesca era del giovane Alain Delon. Grazia e garbo e simpatia aveva, da ragazzo e da vecchio, l’inimitabile Walter Chiari. La grazia di un angelo caduto aveva il divino Laurent Terzieff (Kapò, Peccatori in blue jeans, Il Deserto dei Tartari). Una sua foto in piedi, a torso nudo, glabro, con l’acqua del mare che gli arriva alle ginocchia dei jeans, mentre porta a cavalcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot solare, anch’essa in jeans e T-shirt bianca, è l’emblema della grazia, della giovinezza, della bellezza degli anni Sessanta e della loro innocente malizia.
Ma la sola donna dei nostri giorni sulla cui grazia mi sentirei di giurare è una giornalista di Sky, Chiara Martinoli, ulteriormente ingentilita da una erre alla francese per cui, se mai la incontrassi, le farei dire cento volte “ramarro”.
È difficile trovare grazia anche nelle eroine della letteratura e in pittura, dove pur si può lavorare di fantasia. Nessuna grazia ha la Lucia del Manzoni, incatramata nella sua intollerabile modestia e castità. Anna Karenina è troppo signora, ed è troppo tormentata, per avere grazia. Emma Bovary troppo melodrammatica. Non ha grazia Odette de Crecy, eccessivamente concreta. Una sua misteriosa grazia ha invece Rachel o del Signore, la prostituta, ed è lo stesso tipo di grazia, legata alla sventatezza, della Bocca di rosa di De André. Una grazia astata ha l’adolescente di Cardarelli (“Non sanno le tue mani bianche il sudore umiliante dei contatti”).
Grazia ha la Venere del Tiziano ed è proprio quel movimento, pudico e malizioso, del braccio e della mano a coprire il pube, a donargliela. Una grazia antica ha La muta di Raffaello, anche perché si ha la garanzia che starà zitta. Grazia suprema, eterna, e quindi modernissima, ha l’eterea e sensuale Venere del Botticelli che, del genere, è l’assoluto.
Pur appartenendo, di norma, alla scabra e riottosa adolescenza o alla prima giovinezza, la grazia si può trovare anche in certe vecchiezze estreme che l’età ha prosciugato e rese essenziali. Perché, in definitiva, la grazia è fatta della qualità più difficile da ottenere in ogni campo: la semplicità. Che è proprio quanto il mondo contemporaneo ha perduto.