il Giornale, 22 ottobre 2023
salvare i manoscritti
Nel 1937, Gianfranco Contini cambiava il volto della critica letteraria con un articolo intitolato Come lavorava l’Ariosto. Fu il calcio d’inizio della filologia d’autore che si proponeva di superare Benedetto Croce (senza rinnegarlo). Non era sufficiente distinguere, con gli strumenti e l’istinto del grande studioso, tra poesia e non poesia. Laddove fosse possibile, lo studioso doveva indagare gli autografi degli scrittori, conferendo la massima importanza alle correzioni e alle diverse redazioni. Per capire chi fosse, e cosa volesse, Ludovico Ariosto è indispensabile valutare le differenze tra le tre edizioni dell’Orlando furioso sorvegliate dall’autore stesso. Entrare nelle pieghe del testo significa entrare nella officina dell’autore e vederlo in azione. Croce non la prese benissimo e liquidò la filologia d’autore con una definizione dispregiativa: «Critica degli scartafacci». Ecco spiegato il titolo, Scartafacce, della mostra gratuita allestita nel Palazzo del Broletto di Pavia fino al 29 ottobre (catalogo edito da Interlinea). Nella città universitaria, per volontà di Maria Corti, è nato il Fondo (ora Centro) manoscritti di autori moderni e contemporanei. Era il 1973. L’università di Pavia, facoltà di Lettere, aveva sviluppato una forte vocazione nel campo della filologia. Maria Corti quindi vide bene e vide lontano: conservare e salvare i manoscritti e i dattiloscritti d’autore al fine di renderli disponibili agli studiosi (e agli studenti). Il Fondo crebbe rapidamente e ora conta circa 200 autori, da Montale a Gadda, da Pasolini a Zanzotto, da Manganelli a Calvino. Insomma, stiamo parlando di pesi massimi del nostro Novecento. Prima di visitare l’esposizione, adottiamo per un attimo o due, il metodo Gigi Marzullo, facciamoci una domanda e diamoci una risposta. Cosa è rimasto di Avalle, Contini, Domenico De Robertis, Pasquali, Segre, Roncaglia, Barbi, Caretti, Petrocchi, Rajna e mi fermo qua? Erano maestri nel campo della filologia, anche quando si erano laureati in altre materie, e ci hanno dato i testi più attendibili delle opere capitali in volgare, in italiano, in lingua d’oc e d’oil. La tentazione di rispondere che non è rimasto niente è forte. Oggi ci si può laureare senza averli mai sentiti nominare. L’università di massa, prima, e poi la distinzione, demenziale per le discipline umanistiche, tra laurea breve e magistrale hanno messo in crisi e poi ammazzato un modello di conoscenza che richiedeva olio di gomito e non era alla portata di tutti. Ma ci sono altri motivi. A partire dagli anni Sessanta, una parte dei critici ha teorizzato di essere il tramite, il tratto d’unione, la cinghia di trasmissione tra l’industria editoriale e i lettori. Risultato: i critici, specie quelli militanti, sono diventati gli utili idioti degli editori. La filologia richiede frequenti visite alle biblioteche: molto meglio metterla da parte a vantaggio della sociologia che si può esercitare (male) comodamente seduti con il giornale tra le mani. Questo non significa che non esistano validi studiosi e filologi in Italia. Significa che esistono nonostante l’università e la politica italiana. A voler essere apocalittici, potremmo dire che la sorte degli studi filologici abbia seguito la sorte di ogni studio approfondito sacrificato sull’altare (fintamente democratico) del tutto a tutti, e se quel tutto in realtà è mediocre e provinciale, amen, i ricchi hanno tempo a disposizione, vanno alle università private o si trasferiscono all’estero. Per tutti questi motivi, una mostra come Scartafacce diventa di cruciale importanza. Il team di curatori (Giovanni Battista Boccardo, Federico Francucci, Federico Milone, Giorgio Panizza, Nicoletta Trotta) ha aperto le stanze del tesoro del Centro ed estratto alcune pepite da esibire. Siamo subito accolti da una raffica memorabile di autografi di Eugenio Montale, tra cui il manoscritto di Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, toccante poesia dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963. Con pochi sapienti ritocchi, ben visibili, Montale realizza un capolavoro. Una sezione è dedicata alla Madonna dei filosofi. Non solo è possibile valutare l’intricatissima stesura ma anche il sovrapporsi di redazioni diverse, datate da Carlo Emilio Gadda stesso. Vittorio Sereni era un tifoso della Mille Miglia, gara automobilistica alla quale ha dedicato una poesia intitolata, appunto, Mille Miglia. Nel testo vediamo un «dopocorsa» e un «dopo la corsa». C’è una lettera in cui Franco Fortini chiede lumi: qual è la forma esatta? C’è anche la risposta. Sereni spiega che alterna volutamente le due espressioni. La prima, in particolare, è prelevata di peso dalle «Gazzette sportive». È un caso minimo ma esplicativo di cosa sia la filologia d’autore. Alberto Arbasino è stato un maniacale riscrittore di se stesso. Qui vediamo una copia dell’Anonimo lombardo pesantemente rielaborata in vista della successiva edizione. C’è tutto il campionario che fa divertire/impazzire il filologo: inchiostri diversi, cartigli incollati nella parte inferiore delle pagine, ulteriori carte inserite e subito ricorrette. Ogni visitatore rimarrà senza fiato a seconda dei gusti personali. Il quinto evangelio di Mario Pomilio ha uno zoccolo duro di estimatori pronti a giurare che trattasi del miglior romanzo del Novecento: qui ci sono le pagine riviste e corrette dall’autore de Il quinto evangelista, la pièce posta a suggello del libro. Il lettore di Giorgio Manganelli apprende come lavorava l’autore di Hilarotragoedia: ci sono i suoi laboriosi spogli lessicali di opere latine. Sui taccuini di Ennio Flaiano vediamo nascere alcuni famosi aforismi. I manoscritti di Franco Fortini sono un coacervo di immagini. Lui stesso spiega, in una lettera a Maria Corti, che disegna per distrarsi e fare in modo che giunga l’illuminazione necessaria a cambiare, a volte, una sola parola. Cartoline e lettere di Dino Buzzati spedite in un arco temporale di tre decenni al compagno di liceo Arturo Brambilla sono incredibili opere d’arte dove la parola cede spazio al disegno. È proprio di Buzzati, che al Corriere della sera chiamavano «cretinetti», il pezzo più sconcertante di Scartafacce: una lettera scritta in un codice geroglifico.