la Repubblica, 22 ottobre 2023
Addio a Bobby Charlton
Avent’anni guardò la morte negli occhi con i suoi, che erano azzurro cielo, la dribblò, le sfuggì, si fece da lei eternamente rincorrere, sul campo vinse, vinse ancora, infine l’attese. La morte arrivò tardissimo e lui non la riconobbe, perché l’orizzonte mentale di Robert Charlton, Bobby Charlton, sir Bobby Charlton, era spento da anni. Demenza senile. Dunque, non le ha dato soddisfazione.Quello che è accaduto ieri mattina, a Bobby poteva succedere già il 6 febbraio 1958, nel disastro aereo di Monaco, una specie di Superga per i rossi dello United. Neve, ghiaccio, un pilota che per tre volte tenta il decollo. Nella terza muoiono in 23, e otto sono calciatori. Bobby porterà per sempre nel cuore la ferita del sopravvissuto, che è vergogna e senso di colpa, entrambi senza ragione eppure invincibili. Di ogni cosa, con lui, si poteva parlare, non di quella sciagura. Eppure, proprio da lì cominciòtutto. Nato l’11 ottobre 1937 ad Ashington, lembo inglese quasi in Scozia, figlio di Bob il minatore, fratello di Jack detto Giraffa (un metro e 91, contro l’1.73 di Bobby, difensore arcigno quanto quell’altro era attaccante sublime, una vita all’ombra della gloria altrui, però da campione del mondo), nipote di ben cinque zii calciatori professionisti (George, Jack, Jim, Stan, Jackie), Bobby Charlton era un predestinato. Fortissimo subito, come intuì Matt Busby, mitico allenatore di quei Reds a sua volta uscito moribondo dall’aereo in fiamme. Dopo la sciagura, Matt seppe che attorno a Bobby sarebbe cresciuta la speranza, infine una meravigliosa rinascita.In quel tempo c’erano calciatori che parevano nati vecchi, avevano visi stropicciati, occhi perduti e radi capelli. Bobby Charlton era uno di loro. Aveva la chierica ben prima dei trent’anni, e pure il carisma che a volte si accompagna all’età. Cominciò ala sinistra, diventò mezz’ala, s’impose al mondo come centravanti di manovra (oggi diremmo, male, “falso nueve”). Sapeva fare tutto. Era ambidestro, saltava come un grillo e proprio di testa aprì le marcature nella finale di Coppa dei Campioni 1968 contro il Benfica, per chiuderle con un destro d’incontro. Due anni prima aveva vinto la Coppa Rimet contro la Germania Ovest, gol fantasma di Hurst ai supplementari, niente rete per lui quella volta: lo marcava un giovanissimo Beckenbauer.Numeri spaventosi lo illustrano: 249 gol in 758 partite con il Manchester United (ne fu il simbolo per 17 anni), 49 in 106 partite con l’Inghilterra di cui è stato certamente il più grande campione di ogni tempo. Medie da bomber, nell’epocain cui il calcio aveva tre divinità: Pelé, Eusebio e Bobby Charlton.Lui non era un beat, non aveva nulla di trasgressivo, questo ruolo lo lasciava al suo compagno George Best. Ma è impossibile separare quei meravigliosi campioni dal tempo che li espresse, i favolosi Sessanta in cui gli inglesi furono eversori del mondo con i Beatles, i Rolling Stones, James Bond, Mary Quant che aveva inventato la minigonna. Sir Bobby, però, era baronetto nell’anima forse già da bambino, lui sempre così serio, così impeccabile e british, mai una parola fuori posto, mai un gesto oltre il limite. Univa l’estro latino alla fisicità anglosassone, e correva come un matto. Dopo avere baciato la Coppa Rimet, gentilmente offerta dalla regina Elisabetta al capitano Bobby Moore, l’altro Bobby, cioè lui, si voltò verso il fratello Jack e gli disse: «E adesso, cos’altro può darci il calcio?» La domanda troverà risposta a Wembley, due anni più tardi, quando per la prima volta un club inglese vince la Coppa dei Campioni. Il trofeo lo solleva il capitano Billy Foulkes, l’altro sopravvissuto di Monaco. Fino a ieri, Bobby Charlton era l’ultimo rimasto in vita di quel gruppo. Qualcuno ha scritto che dopo il quarto gol, sollevò gli occhi al cielo e sorrise. Bello, ma non è vero, le immagini lo smentiscono. E poi non sarebbe stato da lui, che il forziere dei sentimenti lo teneva serrato dentro il petto, invisibile al mondo.Dopo il ritiro, per numerosi decenni gli toccherà la parte della leggenda di se stesso, vissuta con il solito stile. Aveva poche, profonde parole. «Noi giocatori siamo schiavi? Allora, datemi l’ergastolo». Firmò il primo contratto a 15 anni, anticipò l’era del calcio totale, si muoveva con suprema grazia e smisurata fantasia. Era un taciturno felice. Così lo avrà trovato la morte, arrivata in ritardo come un avversario sconfitto.