Corriere della Sera, 22 ottobre 2023
Morti ammazzati dalle Br
«Ogni generazione ha il diritto di scrivere la storia degli eventi di cui è stata partecipe», diceva Marc Bloch. E può accadere che nel ricostruire il passato, lo storico vada a disseppellire i morti (anche recenti), senza più nascondere le sue emozioni, il suo vissuto personale.Restituire le tensioni vive di un’epoca (per comprendere meglio l’oggi e illuminare percorsi futuri), significa anche ridare voce ai testimoni, pur sapendo che possono mentire o fare scelte sbagliate. È questo, per gli storici, un enorme privilegio: assaporare i sogni, ascoltare i tormenti, osservare le speranze di chi ha vissuto prima di noi. Così, il nuovo lavoro di Sergio Luzzatto (dal titolo davvero potente), Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse (Einaudi), recupera i percorsi di una scelta dannata, taciuti per troppo tempo: quella dei giovani terroristi di estrema sinistra, irriducibili nella loro ortodossia marxista-leninista, decisi a uccidere a sangue freddo nell’Italia degli anni Settanta, in un magma inestricabile di seduzioni nichiliste, cultura antiistituzionale, ribellismo oltranzista.
Chi erano davvero i «militanti irregolari» di quell’«avanguardia ristrettissima», come li definì Mario Moretti (interessante la terminologia militare), che si autoproclamavano l’esercito della rivoluzione?
Il proliferare della memorialistica, le ricostruzioni giornalistiche e il silenzio delle vittime parlano di reticenze, teoremi e depistaggi. E complici le distorsioni e le manipolazioni di un dibattito politico che riscrive la storia a colpi di banalizzazioni retrospettive, di pacificazione intesa come equiparazione, di quel periodo abbiamo ancora una visione stereotipata.
È Genova il punto di partenza per osservare quegli anni infuocati e disperati, segnati da un intreccio inestricabile di vitalità e violenza. La città cantata da Fabrizio De Andrè, quella delle baraccopoli e delle giungle di cemento di San Teodoro, dove i meridionali si accampano, lungo il torrente Polcevera. Genova città di abusi e miseria, mobilitata dalle parole di don Andrea Gallo, il prete di strada che parla agli ultimi, accoglie i figli di nessuno e discute di obiezione di coscienza. Genova che nel luglio 1960 è insorta contro il governo di Fernando Tambroni. Una città cimitero, quando il militarismo delle Br si scaglierà contro il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, chiamato dallo Stato ad annientare il terrorismo rosso, «a mano altrettanto armata».
È a Genova che le Br ammazzano per la prima volta un magistrato, nel giugno 1976: il procuratore Francesco Coco, colpevole di non aver rilasciato otto detenuti del Gruppo XXII Ottobre, in cambio della liberazione del giudice Mario Sossi.
La regola delle Br è la clandestinità: nomi falsi, documenti falsi, organizzazione in «colonne» diverse nelle grandi città. Godono di una vasta rete di fiancheggiatori, militanti della sinistra extraparlamentare dalle vite normali, che al terrorismo guardano con simpatia e quando possono danno una mano. Comparse, spettatori, che dimostrano quanto i brigatisti rossi non fossero cresciuti «nel vuoto pneumatico delle loro idee». Rifiutando la censura, l’autore mostra i loro volti sfuocati attraverso i pixel, pagine di un tragico romanzo di formazione. E non ha paura di sfogliare (finalmente) il loro «album di famiglia». Quello dell’ultrasinistra ma anche degli estremisti cristiani, come Renato Curcio e Mara Cagol, convinti di portare a compimento la Resistenza, «tradita» nell’aprile 1945. Si tratta però di avventurismo anarcoide, gridano gli ex partigiani: il più pericoloso nemico della democrazia. Perché distruggere una vita per coronare un bel gesto, non ha nulla di rivoluzionario.
«Il passaggio dalle dichiarazioni agli atti, non è cosa da poco» rimprovera Rossana Rossanda a Luzzatto in un’appassionata lettera. Come a dire che la responsabilità delle scelte, specie se estreme e violente, ricade sempre sui singoli (senza nascondersi dietro il dito delle parole d’ordine dei capi). Che i «cattivi maestri» o i pessimi profeti hanno delle colpe, ma che i terroristi non sono eroi, casomai «una decina di persone un po’ qualsiasi». Uomini e donne con ben poche qualità.
Peccato che per capirne la deriva criminale, sia necessario calarsi nelle vite di quegli uomini senza meriti. Sapere quali ambienti avessero frequentato, quali libri avessero letto. Quali amori e odii avessero acceso le loro vite, chi avessero incontrato, prima di approdare alla lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.
Sono i percorsi umani (prima ancora che politici) a segnare le scelte, anche le più sbagliate. Come quella di Riccardo Dura, un ragazzo di vent’anni cresciuto sulla Garaventa, la nave scuola che rieduca minorenni delinquenti, naturale luogo di abusi sessuali, che aderisce a Lotta Continua e nel 1975 opta per la clandestinità. Una personalità fragile, soffocata da una madre oppressiva e castrante, abbandonata dal marito, che, con le sue ossessioni e continue violenze, impedisce al figlio di diventare un adulto equilibrato e sereno. È lei a denunciarlo alla polizia di via Diaz perché scappa di casa, le tira coltelli e minaccia di ucciderla. Lei a farlo internare in manicomio.
Il 24 gennaio 1979 sarà Riccardo a freddare con un colpo di pistola Guido Rossa, l’operaio metalmeccanico iscritto alla Cgil con la passione per l’alpinismo, colpevole di aver denunciato un collega dell’Italsider mentre distribuiva volantini brigatisti in fabbrica. Rossa, «il delatore infame», con una vita già piegata dalla morte di un figlio piccolissimo, ucciso da una fuga di gas nell’appartamento dei nonni, mentre i genitori erano al lavoro. Strade troppo strette, create dalla speculazione edilizia, avevano impedito all’ambulanza di arrivare in tempo per salvarlo. E i giornali avevano riportato lo strazio di un padre disperato: «Non voleva lasciarsi convincere che il suo piccino era morto e voleva portarselo via».
Nel marzo 1970, Rossa aveva scritto a un suo amico perché voleva smetterla con le vette e le arrampicate. Il vento dell’«autunno caldo», l’unione tra studenti e operai (da sempre senza voce), indicava una nuova via d’impegno e partecipazione: guardare più in basso e scendere in mezzo agli uomini, lottare contro «un mondo colmo di soprusi e ingiustizie». Erano, in fondo, anni di sogni (collettivi più che personali) dominati anche dalla ricerca di un’allegria che rivoluzionasse tutti gli aspetti della vita.
Una rivoluzione delle anime in cui ognuno aveva potuto inventare sé stesso, anche la propria deriva.