Corriere della Sera, 22 ottobre 2023
Intervista a Valeria Solarino
Valeria Solarino, qual è il suo primo ricordo?
«I primi sono tutti legati a mio nonno materno, Angelo, una delle figure più importanti della mia vita: mi ha insegnato a camminare, ad andare in bicicletta, a scrivere. Era ferroviere e quando mi raccontava del suo lavoro gli brillavano gli occhi. Ai tempi non sapevo ancora cos’avrei fatto, ma sapevo che volevo far qualcosa con quella luce negli occhi».
L’ha trovata nella recitazione.
«Andavo tanto a teatro e pensavo che quello degli attori fosse il lavoro più bello del mondo. Ma mi sembrava un sogno troppo grande, come pensare di fare l’astronauta».
E allora perché si presentò all’audizione allo Stabile di Torino?
«Mi ero informata sulle scuole nella mia città e avevo scoperto che lì a settembre ci sarebbero stati i provini. Come dialogo preparai l’Antigone e come monologo Ritratto di Signora. Bisognava portare anche una canzone e avevo scelto Il passaggio dei partigiani di Ivano Fossati, perché era molto recitata, ma mi bloccarono prima del ritornello: fu un’umiliazione!».
Però la presero.
«Sì, subito! Uscì il mio maestro, Mauro Avogadro, e mi chiese di non fare provini con altre scuole. È stato il giorno più bello della mia vita».
Cosa videro in lei, senza nessuna esperienza?
«Una grande passione. Partivo da zero, c’era materiale su cui lavorare».
Le piace di più fare teatro, cinema o fiction?
«Sono modi di recitare e di comunicare diversi. Il teatro è bello proprio grazie al rapporto diretto con il pubblico, il cinema ha il fascino che puoi esprimere un sentimento attraverso lo sguardo. Ora comunque ho trovato un equilibrio che mi piace molto fra i tre».
Il film più bello?
«Ladri di biciclette: racconta un’umanità che mi commuove sempre, una realtà che sento vicina, la guerra tra poveri, la dinamica padre figlio. Amo anche i film denuncia come Magdalene».
E «Pretty Woman» non le piace più?
«Ma ogni volta che lo trasmettono io e mia cognata ci scriviamo e lo guardiamo! Mi diverte tutta la parte dei vestiti. Mi piace meno il finale, l’idea che ti debba salvare il principe azzurro. Vale pure al contrario: non amo le relazioni in cui uno salva un altro, preferisco lo scambio».
Sul set è stata Anita Garibaldi, Lucia Bosè, Francesca Morvillo e tanti altri personaggi. Quale le ha risuonato di più dentro?
«Quello di Angela in Viola di mare. L’ho sentito mio intanto perché sono stata coinvolta fin dalle prime stesure della sceneggiatura. Poi perché era la prima volta che mi confrontavo con una tematica di quel tipo. È il film d’amore per eccellenza che ho fatto: che poi fossero due donne è secondario, erano due persone».
Ha affrontato il tema dell’identità di genere anche in «Gerico Innocenza Rosa», il monologo scritto per lei da Luana Rondinelli, che tornerà all’Ambra Jovinelli il 26 ottobre.
«La cosa più bella è che si crea un’empatia fortissima con il personaggio. Non solo chi ha compiuto la transizione, ma anche persone con convinzioni e preconcetti molto strutturati sono venuti a salutarmi con le lacrime agli occhi».
E lei ha mai avuto dubbi sulla sua identità?
«No. Mai provato attrazione per una donna».
Ha più ammiratrici o ammiratori?
«Più donne. Mi capita di ricevere fiori, regali, e la maggior parte arriva da donne, mentre l’uomo si imbarazza».
A proposito di imbarazzo, è riuscita a conoscere Sophia Loren? Avrebbe voluto invitarla a vedere «Una giornata particolare», che ha interpretato a teatro con Giulio Scarpati.
«Ci abbiamo provato. Mi dispiace che nemmeno Ettore Scola sia riuscito a vederlo. Era amico di Giulio, sapeva che lo stavamo portando in scena. Quando lo conobbi disse che ero giustissima per il ruolo e mi propose di usare lo stesso abito indossato dalla Loren nel film. Ma era rischioso portarlo in tournée per tre anni, lo avremmo rovinato. Però mi lusingò molto».
Di Robert De Niro, che ha conosciuto in «Manuale d’amore 3» del suo compagno Giovanni Veronesi, che ricordo ha?
«Eravamo in Toscana per le riprese e avevamo il pomeriggio libero. Propose di andare a visitare un borgo. Non osavo chiedergli una foto per non dargli fastidio. E lui a un certo punto, mentre eravamo in un giardino, mi chiese se volevo farne una. Poi me la mandò. Mi aveva colpito».
Il mito?
«Bruce Springsteen. Ci siamo conosciuti nel 2010, alla Festa del Cinema di Roma. Da madrina, ebbi il privilegio di essere invitata a una cena dove c’era anche lui. Non ebbi il coraggio di chiedere foto o autografi, ma parlammo per dieci minuti e a un certo punto disse: “Perché noi artisti...”. E in quel “noi” comprendeva anche me. Quella notte, tornata a casa, faticai ad addormentarmi dall’emozione. Io da piccola ho imparato l’inglese studiando le sue canzoni».
La sua preferita?
«Bobby Jean».
E invece ha conosciuto i suoi adorati tennisti?
«Sì. Il mio mito è Nadal. Un mio amico mi ha fatto avere il cappellino con autografo e dedica. E per il compleanno la maglietta autografata».
Indossa i completi bianchi con il gonnellino?
«Solo quando sono allenata. Se riprendo dopo un po’ che ero ferma indosso cose più punitive. Il completino deve valorizzare il tuo stile».
Turista con De Niro
Giravamo in Toscana, ci propose di visitare un borgo con lui Non avevo il coraggio di chiedergli una foto insieme. Me lo propose lui e poi me la mandò
È vero che ha bigiato il set per guardare una semifinale?
«Per tutta la settimana degli Internazionali di Roma! Stavo lavorando a un film e a una serie tv e ho chiesto alla mia agente di dire a una produzione che ero impegnata con l’altra e viceversa».
Ha completato il Grande Slam da spettatrice?
«Manca sempre l’Australia. Però sono andata in pellegrinaggio allo Stadio di Melbourne».
Chi è più bravo a tennis, lei o Giovanni?
«Lui perché gioca fin da piccolo. Ma se avessi cominciato prima, sarei molto più brava io».
La leggenda narra che la sua passione è nata dalla lettura di «Open». Possibile?
«Sì. Dei match che citava non ne avevo visto nemmeno uno. Poi ho conosciuto l’autore, J. R. Moehringer. Gli ho parlato della biografia con così tanta passione che mi ha lasciato la mail e mi ha chiesto di leggere gli altri suoi libri».
Lo sport fa parte della sua vita, giocava a basket. Ma ritorna anche nel lavoro: martedì a Roma presenta «The Cage – Nella gabbia», il film di Massimiliano Zanin in cui interpreta una istruttrice di Mma.
«È stato un ruolo complicato. Dovevo suggerire alle ragazze che allenavo le mosse da fare e nominare le tecniche: mi sembrava arabo. Del film mi ha colpito il tema delle gabbie, non solo fisiche, quando viviamo una vita non nostra».
Il ruolo più difficile?
«Forse quello di Lucia Bosè, perché dovevo recitare in spagnolo. Quando reciti ti devi lasciar andare, mentre io avevo il pensiero di non dimenticare le battute».
Le dispiace non essere diventata madre?
«No, non è mai stato un mio desiderio. Adesso semmai posso pensare di occuparmi di qualcuno. Mi hanno parlato di una forma di tutoraggio per assistere tanti minorenni che arrivano in Italia lasciando i genitori in patria e che hanno bisogno di sostegno per le cose burocratiche, come chiedere i documenti, o per i colloqui a scuola. Loro continuano a stare in istituto».
Il tema della migrazione le sta molto a cuore.
«Le persone si spostano per da sempre per cercare una vita migliore. I miei nonni paterni emigrarono in Venezuela, dove sono nata; quelli materni a Torino, dove sono cresciuta».
È appena stata a Lampedusa per i dieci anni dalla tragedia del mare nella quale morirono 368 migranti.
«Tramite Amnesty International ho conosciuto tante persone che si occupano di migrazione. Alle 3.15 del 3 ottobre ci siamo ritrovati intorno al Memoriale fatto costruire da Vito, il pescatore che ha salvato 47 persone, e lì hanno cominciato leggere i nomi di tutte le vittime, per la prima volta persone e non numeri».
So che ha un cane.
«Paco, un golden retriever tutto bianco».
Vuole più bene a lei o al suo compagno?
«Credo che voglia più bene a me. Ha capito che sono il punto di riferimento per tutto quello che è vitale: cibo, cura, medicine e affetto».
Condivide lo sfogo di Pierfrancesco Favino a Venezia sui ruoli che dovrebbero essere affidati agli italiani?
«Sono profondamente d’accordo con lui».
Seguendone la logica, nemmeno Monica Bellucci avrebbe dovuto interpretare Maria Callas.
«Ma io non vedo l’ora di vedere la Callas di Bellucci! Il discorso di Picchio è che quando un set americano arriva in Italia a girare, non può affidare agli italiani i ruoli marginali. Capisco che il mercato voglia una star, ma bisogna trovare un compromesso».
Chi sono i suoi amici, tra gli attori?
«Tutti quelli con i quali ho lavorato, perché durante le riprese si crea una famiglia, a teatro ancora di più. Però dopo è difficile mantenere quel rapporto. Gli amici che frequento, invece, non fanno questo lavoro».
Il ruolo che avrebbe voluto interpretare?
«Prima dicevo Nikita: mi piaceva questo film d’azione, ma anche psicologico. Diciamo che per Luc Besson farei qualsiasi cosa. Un altro ruolo meraviglioso è quello di Charlize Theron in Monster: è una sfida potersi trasfigurare così».
Pensa ancora che agli uomini vengano assegnati i ruoli più belli?
«In parte. Oggi le cose sono cambiate, anche grazie alla presenza di tante registe donne».
Chiudiamo con leggerezza. Grazie al suo lavoro indossa abiti meravigliosi. Il più bello?
«Uno dei più belli, un Cavalli per l’apertura del Festival di Venezia l’anno in cui ero in giuria».
E lo ha tenuto?
«Restituito subito, come Cenerentola».