Corriere della Sera, 22 ottobre 2023
In morte di Staino
Michele Serra per REp
Sergio Staino non è stato solo un grande autore e narratore satirico (uno dei più importanti del Novecento italiano). È stato anche un intellettuale generoso e indomabile, neppure scalfito dal sospetto che la politica, la cultura, l’arte potessero mai perdere rilievo e significato sotto i colpi dei tempi nuovi. Intellettuale nel senso più profondo e più concreto del termine: una persona che suscita pensiero, lo provoca, lo organizza, e nel tumulto che ne deriva si sente vivo e utile.
Oggi, in un mondo ideologicamente scardinato, non è facile capire quale ingegnoso, incredibile azzardo fu il suoTango : un giornale di satira dentro l’organo ufficiale del Partito comunista, un bivacco chiassoso e programmaticamente libero dentro le mura già intaccate ma ancora imponenti di quel partito che per lui, come per milioni di italiani, era ancora casa e chiesa. Sergio, in quell’ormai lontano ’86, era già il padre di Bobo. Ovvero l’autore di una vera e propria saga del disincanto, autobiografia collettiva di un mondo perfettamente cosciente della morte dell’ideologia eppure appassionatamente vivo, persona per persona; e fermamente intenzionato a non diventare mai cinico, mai immeschinito.
In quelle strisce l’intenzione artistica di Staino era indistinguibile da quella politica: quel gruppo di famiglia era una specie di parlamentino domestico.Bobo è una delle più fortunate,limpide applicazioni dell’idea sessantottina che niente è solo privato, niente solo politico. Si trattava di elaborare il lutto (la casa comune si stava sfarinando, la Bolognina era alle porte) senza piangersi addosso e anzi ridendo di se stessi, terapeuticamente, intelligentemente. Bobo lo faceva a partire dai suoi esordi politici giovanili, la militanza in un partitino marx-leninista settario e moralista del quale parlava quasi con tenerezza, come di una malattia formativa. Da quell’angustia il giovane Staino, architetto già con il guizzo del disegnatore, era sortito con una gran voglia di campo aperto e di avventura intellettuale.
Ma la vittoria di Bobo, il suo successo ben presto molto solido, non gli bastava. Bobo era un eroe collettivo, insieme a Cipputi è stato ed è il testimone impavido di un trapasso d’epoca di quelli che tutto travolgono tranne i sentimenti forti e i princìpi solidi. Il suo romanzo non poteva esaurirsi nell’autobiografia, era un romanzo sociale ed era un romanzo politico. Aveva necessità di compagni di viaggio e andò a snidarli quasi ovunque. (Me, molto giovane, mi inchiodò al bar Basso di Milano dicendomi: tu sei un autore di satira. Non mi risultava e glielo dissi, ma non mi sembrò che la mia opinione reggesse davanti alla sua, che era quella di un capo).
Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto, Sergio, a mettere insieme un gruppo di autori così lontani tra loro e così lontani da lui, gli anarchici, i menefreghisti, quelli del Settantasette, i comunisti, i radicali, gli allegri sporcaccioni “alla francese”, i moralisti pan-politici. Con un tasso di narcisismo e di ombrosità che, per giunta, tra i satirici è spesso altissimo, perché alla foga politica tocca sommare la prosopopea artistica. Ma la sua fiducia nella interminabile e sempre inconclusa discussione che costituisce l’essenza stessa della sinistra era così forte da vincere una scommessa che, sulla carta, sembrava quasi insensata. Andrea Pazienza con Ellekappa, Vincino con Altan, Angese con Domenico Starnone, Mannelli con Francesco Guccini, tutto si tenne. E Paolo Hendel, David Riondino, le feste di Tango a Montecchio: Cuorefu, di quella storia, una fortunata discendenza. Il figlio di quel padre.
Già lo slogan di lancio di Tango ,“chi si incazza è perduto”, diceva tutto dello spirito di Sergio, che era aperto, curioso, disponibile, mai arcigno, mai escludente. Da Mao a Matteo Renzi (non è una battuta, è l’enunciazione di una vastità) nonc’è fase o personaggio della storia della sinistra e della post-sinistra con i quali Sergio non avesse voglia di aprire un contraddittorio permanente. Perché Sergio aveva la fortuna di essere – o di essere diventato per intelligenza e per voglia – al tempo stesso un eretico e un ortodosso, un riformista e un incendiario, un polemico e un tollerante, un uomo di partito e un artista irriducibile a qualunque convenienza politica, una persona schieratissima eppure dal giudizio sempre libero. Lasciando un segno che, a volerlo intendere, è tanto più importante quanto più la discussione pubblica va facendosi acrimoniosa e suscettibile: essere appassionati ed essere tolleranti non solo non è incompatibile, ma l’una e l’altra facoltà possono darsi reciproco sostegno. “Chi si incazza è perduto”.
Le persone che, sulla scena artistica e culturale italiana, devono qualcosa a Sergio Staino sono parecchie: la sua capacità di “fare ambiente” e anzi crearne di nuovi, la sua voglia di animare giornali, riempire teatri, organizzare incontri è stata ininterrotta (fino alla presidenza del club Tenco, la cui rassegna è in corso proprio in questi giorni sul palco dell’Ariston). Ha fatto incontrare persone, ha incrociato altri artisti e li ha fatti incrociare tra loro, ha preso di petto i leader della sinistra da pari a pari, è intervenuto in tutti o quasi i dibattiti esistenti perché rimanersene zitto non era nelle sue facoltà. Ha sollecitato chiarimenti e ha sollevato polemiche, e sempre come se nessuna partita fosse chiusa e tutte le occasioni ancora aperte. Era ottimista, spiritoso, coraggioso. Non si è mai arreso alla cecità progressiva che lo ha tormentato per quasi tutta la vita. Ha continuato a lavorare con l’aiuto di suo figlio Michele e il sostegno inesauribile di sua moglie Bruna.
Mancherà molto a chi gli ha voluto bene. Oltre agli amici, milioni di lettori, che gli saranno sempre grati per avere raccontato gli sconvolgimenti della sinistra italiana come se la sinistra, anche in mezzo ai cocci, fosse ancora una comunità, e il suo viaggio non debba mai avere fine.
Antonio Carioti per il Cds
Ci mancherà molto Bobo, antieroe ingenuo e pasticcione di una sinistra disposta a prendere in giro sé stessa. Il suo creatore Sergio Staino è scomparso all’età di 83 anni, lasciando un grande vuoto nel mondo della satira e il ricordo di tanti sorrisi – a volte anche belle risate – che era riuscito a strappare con le sue strisce e vignette.
Sono testimonianza dell’affetto nei suoi confronti le dichiarazioni di molti protagonisti della vita pubblica. Romano Prodi ricorda «la sua intelligenza e il suo garbo». Emma Bonino lo definisce «geniale, acuto e mai volgare». Secondo Matteo Renzi, «è stato spesso un feroce critico e allo stesso tempo un affettuoso fratello maggiore». Vittorio Sgarbi lo ricorda«affettuoso e severo». «Anche le matite migliori si consumano», commenta rattristato il disegnatore Vauro Senesi.
Critico, ma mai cattivo anche con la sinistra
di cui è stato interprete Mancherà la sua intelligenza
La storia di Staino è legata a quella del Pci. Sulle pagine del quotidiano ufficiale, «l’Unità», Bobo aveva portato una nuova vena d’irriverenza. Più tardi sarebbe diventato direttore del giornale per un periodo breve tra il 2016 e il 2017.
È stato spesso un feroce critico ma allo stesso tempo un affettuoso fratello maggiore
Nato a Piancastagnaio (Siena) l’8 giugno 1940, Staino aveva lavorato come insegnante e si era stabilito a Scandicci (Firenze). Al mondo del fumetto era approdato relativamente tardi, perché l’anno di nascita di Bobo è il 1979, quando il personaggio aveva esordito sulle pagine della rivista «Linus», riscuotendo subito un notevole successo. Iscritto al Pci, calvo, occhialuto, barbuto e piuttosto pingue, Bobo era una sorta di alter ego dell’autore, ne rifletteva le incertezze e la profonda sensibilità umana.
Sergio è stato un mio amico ma anche un amico del mondo radicale
Era geniale, acuto e mai volgare
Nel 1982 Staino era diventato il vignettista dell’«Unità». E i lettori del giornale avevano presto acquisito dimestichezza con Bobo e i personaggi di contorno: la moglie Bibi, i figli Ilaria e Michele, il brontolone Molotov.
Sempre al lavoro
Sin dagli anni ’70 aveva accusato i problemi che negli ultimi anni lo avevano reso cieco
Il suo lavoro era molto apprezzato anche al di fuori del partito. Umberto Eco ebbe a dire che uno studioso del futuro, ignaro delle vicende italiane, avrebbe trovato nelle strisce di Bobo un’ottima fonte per comprendere i cambiamenti avvenuti nella società a partire dagli anni Ottanta.
Nel 1984 Staino aveva vinto il premio della Satira di Forte dei Marmi. E nel 1986 era nato sotto la sua direzione «Tango», supplemento satirico dell’«Unità» al quale avevano collaborato Altan, ElleKappa, Michele Serra, David Riondino, Francesco Guccini.
Nell’ottobre 1988, dopo alterne vicissitudini, «Tango» aveva chiuso e al suo posto era nato «Cuore», diretto da Serra, al quale Staino aveva partecipato per poi distaccarsene. Non gli piacevano certi eccessi polemici dei suoi ex compagni di viaggio: pur rivendicando sempre la sua identità di sinistra, non aveva remore nel riconoscere il fallimento del comunismo e guardava alle radici riformiste del socialismo, anche se Bettino Craxi non gli era mai piaciuto. Tanto meno Silvio Berlusconi.
Semmai, benché ateo, Staino apprezzava un certo mondo cattolico e guardava con simpatia alla figura di Gesù, che considerava il primo socialista. Aveva collaborato per quasi un anno, nel 2018, con il quotidiano dei vescovi italiani, «Avvenire».
Sin dal 1977 Staino aveva accusato gravi problemi alla vista, che con il tempo lo avevano reso praticamente cieco. Aveva affrontato la malattia con estremo coraggio, assistito dalla moglie Bruna, e aveva continuato a lavorare fino all’ultimo, con l’aiuto del computer e con notevole fatica. Con il solito spirito equanime, riconosceva doti significative anche a Giorgia Meloni. Ma guardava alla vita pubblica con crescente perplessità: «Oggi – aveva detto – c’è meno bisogno di satira. Oggi i politici si dissacrano da sé».