Corriere della Sera, 22 ottobre 2023
La figlia di Gaber parla del padre
«Papà si giocava i libri a poker con Calasso»: i ricordi di Dalia, la figlia di Giorgio Gaber.FD alia Gaberscik, che immagine di suo padre viene fuori dal docufilm «Io, noi e Gaber», che sarà proiettato oggi alla Festa del Cinema?
«Per me era un uomo simpaticissimo, la persona più piacevole con cui passare una serata. Il film è un magnifico racconto affettuoso».
Piacerebbe a suo padre?
«Il papà odiava riguardarsi, anzi rivedere i suoi spettacoli a casa era vietato, mentre quando era nella fase creativa prima o poi tirava fuori il tormentone o l’ossessione del momento, sentiva l’urgenza di confrontarsi».
Era diverso a casa dal Signor G del teatro-canzone?
«Il lavoro era il suo gioco preferito. Si svegliava tardi, all’una o alle due, colazione, sigaretta, prove nel tardo pomeriggio, un toast prima dello spettacolo, primo tempo, secondo tempo, e anche un terzo tempo...».
Terzo tempo?
«Raggiungeva la felicità alla fine dello spettacolo, una gioia fisica quando aveva consumato tutte le cellule: mi sembrava persino di vederlo più piccolo. Faceva due tempi per potersi cambiare la camicia nell’intervallo, che era fradicia, e alla fine ne buttava via un’altra, era come svuotato e rimpicciolito, ma era la felicità pura, si asciugava e in camerino cominciava il terzo tempo con la gente che andava a trovarlo. Più che i complimenti ascoltava le critiche, le domande...».
Cosa la impressionava di più vedendolo in scena?
«Era una macchina, con una memoria di ferro. Diceva: “Dopo che ho raggiunto la memoria perfetta del testo, comincio a divertirmi”, a quel punto gli capitava di pensare ad altro mentre recitava o cantava. Durante l’intervallo una volta mi disse: “Sai che ho pensato a quella cosa della tua professoressa di latino? hai ragione, è proprio una...”».
Ma lei lo vedeva spesso?
«Era molto in giro, ma per me è stato un padre molto presente, addirittura mammoso. Se erano in tournée mamma e papà, con me restava la nonna, la madre di mia madre, che mi ha tirata su, era la mia prima mamma».
Che coppia erano suo padre e sua madre, Ombretta Colli?
«Uniti quasi in forma patologica, con una complicità che superava ogni elemento esterno, comprese me e mia nonna. Comunque, quel che diceva mia madre era legge per lui, quel che diceva mio padre si poteva mettere in discussione. Poi a sorpresa lei lo sosteneva quasi sempre: persino quando nel 1970 decise di mollare la tv... Lasciare la Rai per il teatro fu una brutta botta economica».
Non un padre autoritario, a quanto pare.
«Per niente. Negli ultimi anni nella nostra casa di campagna in Lucchesia, con la nascita dei miei due figli, era diventato rigido sull’ordine, se piantavo lì la carrozzina, se cambiavo il pannolino sul divano, se trovava in giro il ciuccio... Era già malato e si irritava facilmente».
Momenti di confidenza?
«Ho passato gli ultimi tre mesi in Toscana con lui, mollando tutto. Era di una lucidità totale, drammaticamente consapevole, non cupo. Ho passato un sacco di tempo a chiacchierare con lui, serate paradossalmente ridanciane. Non era un tipo coraggioso ma diceva: “Beh, a un certo punto mi addormenterò”».
Nessun conforto di fede?
«Su Dio era molto scettico, diceva: “Boh, speriamo”».
Fu una lunga malattia?
«Nell’87, aveva 48 anni e io 21, stavo studiando alla scrivania, lui arriva e mi fa: “Cazzo, ho fatto un esame medico e non è andato bene”. Il tumore si è ripresentato nel ‘93».
Ha fumato fino all’ultimo?
«Era astemio, come noi tutti, e non era un mangione. Ma ha fumato Marlboro rosse per tutta la vita, 40, 50 al giorno. Diceva: “Più di così non posso”. Verso la fine non aveva voglia, e ci siamo preoccupati».
Come reagì quando sua madre entrò in politica?
«All’inizio era molto perplesso su Berlusconi, ma quando capì che la mamma era convinta, le disse: “Vai, penso che la politica abbia bisogno di persone perbene”. Si infuriò perché la sinistra lo aveva messo in croce, qualcuno sosteneva persino che doveva divorziare...».
Ha avuto un rapporto difficile con la sinistra?
«Diceva: “Non sarò mai di destra, ma nessuno mi fa incazzare come la sinistra”. E poi: “Io sono di sinistra, non della sinistra”. La morte di Berlinguer in casa fu un vero colpo: non ricordo se piansero ma poco ci mancò».
Gli altri conflitti politici?
«Il momento più duro fu nella stagione ’77-’78: anche mio padre fu contestato, gli tiravano addosso di tutto. Anche Milani e Bisio ricordano di averlo fischiato».
Come reagì?
«Raccontava che a un certo punto qualcuno gli urlò: “Non è giusto che canti solo tu...”. E lui: “Magari altri sono stonati, no?”. E quelli: “La stonatura è un’invenzione dei padroni”. Era un clima di follia. Si è fermato per un anno, ma senza teatro si annoiava terribilmente. Fino a due anni prima andava a prendere mia madre alla Statale in Jaguar senza problemi. A pensarci rideva ancora dopo anni».
La risata migliore?
«Lavoravo già con lui, nel ‘90, quando propose a Jannacci di fare insieme a Venezia, da registi-protagonisti, Aspettando Godot. Erano in quattro, con Paolo Rossi e Felice Andreasi. Sembrava di stare in gita di classe. Durante la prima, Andreasi ebbe un vuoto di memoria imbarazzante, dopo un po’ Jannacci gli si avvicina e gli sussurra: “Buttati giù”, con la speranza di simulare un problema di salute. Andreasi si mosse verso il proscenio e urlò: “Buttati giù!”. A quel punto Enzo, Paolo, mio padre esplosero in una gran risata e calò il sipario. Quando si trattò di consigliare ad Andreasi, che non era più giovane, di mettere un auricolare con un suggeritore, i due registi codardi confabularono per un po’: “diglielo tu”, “no, diglielo tu”, “no, tu...”. Alla fine chiamarono Paolo: “Glielo devi dire tu”».
Avevate spesso la casa piena di gente?
«Ricordo le serate con Mina, una figura mitologica anche in casa; se poi si era per strada, quando passava lei si fermava il mondo, non ce n’era per nessuno. Spesso venivano Ric e Gian, Cochi e Renato, Enzo, Milva. Una mattina suona in via Frescobaldi un tale Battiato, gli apre mia madre e quello dice: “Vorrei fare l’artista”. Papà ascolta un po’ di cose sue, sperimentali e strane, rimane perplesso, ma gli dà fiducia. Conduceva in Rai un programma con Caterina Caselli, dove ciascuno dei due portava un esordiente: Caterina portò Francesco Guccini e papà Francesco Battiato. Ma siccome erano tutt’e due Francesco, mio padre gli disse: “Facciamo che ti chiami Franco”. E da allora per tutti, anche per sua madre, diventò Franco».
Rimase l’amicizia?
«Mia madre lo prese come chitarrista nelle serate estive. Lei portava delle minigonne inguinali, era di una bellezza incredibile, e Franco raccontava che in un paesino del sud a un certo punto percepì che un ragazzotto in prima fila aveva fatto dei gesti verso la minigonna e di colpo lo vide cadere al suolo: mia madre gli aveva spaccato il microfono in testa. Era tremenda. Soccorritori, ambulanze.... Franco è rimasto un amico storico».
Serate divertenti?
«A casa nostra c’era un poker stabile con papà, mamma, Battiato, Roberto Calasso, il direttore dell’Adelphi, e sua moglie Fleur Jaeggy. Giocavano fino alle due o alle tre mettendo in palio i libri dell’Adelphi. Dunque Roberto perdeva anche quando vinceva».
E con Sandro Luporini che amicizia era?
«È un tipo strano, storto, indolente, un ipocondriaco. Si vedevano da noi in Toscana tutti i giorni per lavorare. Sandro arrivava e cominciava: “Ho male qua, ho male là...”. Un giorno aveva male persino ai capelli. Papà rideva: “Tu mi sotterri”. Infatti».
L’ultimo ricordo?
«Papà era campione mondiale del biliardino, faceva morir dal ridere, intimoriva l’avversario, rullava, faceva gol di gancio, micidiale. Quel che mi manca è la sua allegria».