La Lettura, 21 ottobre 2023
Tradurre l’Odissea
Verso la fine degli anni Quaranta, Cesare Pavese si cimenta nella traduzione dell’XI libro dell’Odissea, il libro dell’evocazione delle anime dall’Ade. Si tratta soprattutto di un esperimento. Pavese applica infatti un metodo consapevolmente «folle» e fallimentare in partenza, cioè tradurre il greco antico cercando di mantenere lo stesso ordine delle parole in italiano, impresa di fatto impossibile considerata la diversità del sistema sintattico delle due lingue. «Non me la morte consolare, illustre Odisseo:/ vorrei campagnolo essendo servire a un altro/ uomo presso povero, cui non cibo molto fosse,/ piuttosto che a tutti o morti defunti regnare». Così parla l’anima di Achille nella versione di Pavese. Ma ancora è niente. Le volte in cui Pavese non trova soluzioni soddisfacenti in italiano, fa ricorso ad altre lingue come per completare le tessere mancanti di un mosaico. La più frequente è il suo caro inglese: «Conobbe subito me quello, poiché bevve il sangue nero:/ si lagnò egli loud abbondante lacrima versando». Ma anche il francese: «Madre mia, necessità me spinse chez l’Ade.» E persino il latino per cavarsela con alcune formule di passaggio piuttosto sfuggenti: «Tum vero poi ai compagni stimolando comandai / le pecore, che giacevano sgozzate dallo spietato bronzo, scuoiate bruciare, e supplicare agli dei».
La traduzione di Pavese non era destinata alla pubblicazione, ma è stata recuperata dai quaderni dello scrittore da Eleonora Cavallini (La Nekyia omerica nella traduzione di Cesare Pavese, Edizioni dell’Orso, 2015) ed è ora un documento prezioso del suo «sforzo furioso di immedesimazione», stando alla definizione – in chiave non lusinghiera – che Fausto Codino dava delle sue traduzioni dal greco. Sforzo furioso di immedesimazione che potremmo fare risalire a circa duemila anni prima, quando Livio Andronico traduce l’Odissea in latino. Della Odusia ci restano pochi ma significativi frammenti, in particolare il verso d’apertura: «Virum mihi, Camena, insece versutum» («L’uomo a me, o Camena, canta astuto»), con cui Livio Andronico fa specchiare Omero nella lingua dei Romani. Stesso ordine delle parole dell’incipit omerico con sostantivo e aggettivo separati agli estremi del verso, sostituzione della Musa con la divinità arcaica romana della Camena e altre finezze messe in luce da Scevola Mariotti in Livio Andronico e la traduzione artistica (Università di Urbino, 1952, 1986), saggio che sarebbe utile anche a chi si occupa di teoria della traduzione.
Ogni epoca insegue dunque Omero, pur nella consapevolezza che l’inseguimento sarà sempre fallimentare. Di conseguenza i lettori italiani dispongono di molte traduzioni anche recenti. Molte e variegate, da quella calibratissima di Giuseppe Aurelio Privitera, a quella di Maria Grazia Ciani che, in prosa, e proprio perché in prosa, ci restituisce l’Odissea nell’ottica di una grande madre del romanzo moderno. Ora alla schiera si aggiunge felicemente la versione di Daniele Ventre edita da Ponte alle Grazie, rielaborazione di una Odissea già tradotta nel 2014, corredata di un’ampia introduzione su cui gli specialisti di Omero potranno dire la loro.
Emblematico di questo lavoro è già il modo in cui il traduttore ha scelto di rendere il nome del protagonista, «Odìsseo», segnalando graficamente la variante colta del nome, con l’accento sulla terzultima sillaba, pronunciato dunque alla latina. La scelta ci dà la misura di quanto sia importante per il traduttore creare una lingua «altra», l’unica con cui ritiene che possa rivivere la dizione epica. Tutto ciò, del resto, è chiaramente espresso nella dichiarazione di intenti premessa alla traduzione, dove Ventre prende le distanze non soltanto dalle soluzioni in prosa che comportano la «perdita di riconoscibilità del testo poetico», ma persino da quelle in endecasillabi, verso considerato in definitiva troppo «orecchiato». «Uniche opzioni rimanenti per un traduttore di Omero – scrive – che voglia fare il suo lavoro con coscienza senza violentare il testo sono il verso libero o il riecheggiamento diretto dell’esametro, o al più il rigo di prosa dattilicamente ritmato in clausola».
Quasi a ogni riga potremmo trovare un esempio di questa lingua altra. Nelle scelte lessicali: «nave nerigna», «Odìsseo longanime», «eran seduti sui cuoi dei bovi che avevano uccisi», «in copia tagliavano carni», le forme arcaiche «ove», «ella» per dove, lei, «empire» per riempire, «i deschi», eccetera. Nelle figure retoriche smaccate «nave azzurra di prora», «tenebra cupa di nebbie». Nell’epiteto di una patina montaliana per «Atena dagli occhi di strige». Nella libertà che a volte scompiglia l’ordine consueto delle parole: «Fecero i giovani intorno corona di vino ai crateri», e così via.
Eppure, questi esempi, così isolati, non ci direbbero nulla del modo in cui in realtà funzionano nel loro contesto. Grazie infatti al ritmo che Ventre ha saputo imprimervi, la lingua della sua Odissea ha una ragion d’essere fondata. Traduzione colta per un pubblico colto, questo è sicuro, ma pienamente coerente. Coerenza che, verso dopo verso, con il ritmo che piega la lingua, ci trasporta in una dimensione di formularità straniante che appaga – per dirla con Franco Battiato-Manlio Sgalambro – la nostra (eventuale) voglia di arditezze.
Certo, viene da chiedersi se il traduttore sia mai stato abitato da un dubbio o, meglio, da un rimorso. Se collocando cioè l’Odissea in cima a un sentiero impervio non l’abbia allontanata troppo dal common reader. Proprio l’Odissea che – per la sua intrinseca natura di opera figlia di una cultura dove l’oralità ha un peso determinante – si presta nelle sue sfaccettature a essere anche opera popolare per eccellenza. La risposta, probabilmente, è no. Ma se questo sia avvenuto per una fiducia estrema nel lettore o per un’altrettanto estrema indifferenza nei suoi confronti, è una di quelle forme di ambivalenza in cui gli opposti convivono fino a confondersi.
Per quanti si chiederanno invece a che pro una nuova traduzione dell’Odissea, visto il gran numero delle esistenti, la risposta è certa. L’ha già data Cesare Pavese che negli stessi anni in cui scriveva Dialoghi con Leucò, faticava a tradurre per sé Omero con il vocabolario e incaricava poi dell’impresa Rosa Calzecchi Onesti, raccomandandosi di non trasformare la voce dell’Iliade e dell’Odissea in quella di un classico italiano minore. Scrittura, traduzione, committenza editoriale. Sforzi furiosi di immedesimazione che da punti differenti convergono verso la stessa meta e che ci dicono che non si potrà mai smettere di inseguire Omero.