La Lettura, 21 ottobre 2023
Caravaggio in teatro
«Ogni stagione ha il suo Caravaggio», scrive Vittorio Sgarbi, critico d’arte e scrittore. «Questa è la più propizia, perché l’apparizione dell’Ecce Homo a Madrid è stata accompagnata da un coro di consensi senza precedenti per un’opera apparsa dal nulla», tela immediatamente attribuita a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Sgarbi il 29 ottobre sarà a Bari al Teatro Kismet per parlare dell’immenso pittore in occasione della prima nazionale dello spettacolo Caravaggio. Di chiaro e di oscuro, scritto da Francesco Niccolini, diretto da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, registi per la prima volta di un monologo, interpretato da Luigi D’Elia.
Lo spettacolo – dopo alcuni passaggi in estate e un’anteprima a Sant’Arcangelo di Romagna giovedì 26 ottobre – si può dire nato da diverse passioni. Niccolini afferma di coltivarne «una sfrenata per fine Cinquecento e inizio Seicento, anni in cui si compie la più sconvolgente rivoluzione di pensiero e di religione di ogni tempo (dalla Riforma alla Rivoluzione copernicana), un’epoca di violenza, smarrimento e ardori. Non poteva mancare Michelangelo Merisi, anzi: è il punto d’approdo. Il più alto e sublime che potessi desiderare. E il più disperato». Il motore che tenacemente ha dato il via a tutto è stato l’attore Luigi D’Elia, che da molti anni ha con l’autore il desiderio di parlare di Caravaggio, desiderio che come spesso accade rimane sotto la cenere fin quando, grazie a sinergie, riesce a esplodere. «Io amo la pittura – afferma D’Elia —, è la mia seconda vita, ho passato notti e giorni a pitturare. Non potevo permettermi uno studio e caricavo colori e tele in una vecchia 500 per andare a dipingere sotto i ponti o nei boschi. Sono cresciuto tra tele e pennelli di mio padre, nell’odore dei solventi. Credo di essere arrivato a Caravaggio per questo». Cosa accenda così gli animi per questo pittore lo spiega sempre D’Elia. «Di Caravaggio amo la sua sensualità sfrenata, la vita libera dei corpi, la sfrontatezza di mettere il “desiderio” al centro. Che grande rivoluzione raccontare l’alto, l’altissimo, Gesù, Maria, Maddalena... senza temere di farlo radicandosi nel più profondo desiderio. Che la modella ideale per dipingere una Madonna sia una prostituta, secondo Caravaggio, la sua Lena, perché piegata dalla vita ma ancora bella, sensuale, profumata di letti d’amore, è deflagrante. Caravaggio porta il mistero dei nostri archetipi interiori più alti all’assoluta carnalità della vita».
La coppia di registi Vetrano e Randisi, che lavorano insieme dal 1976 e ora in tournée in Cina con Aspettando Godot di Beckett con la regia del grande Theodoros Terzopoulos, sono i più importanti esponenti di un teatro di ricerca che ha saputo farsi popolare, una sintesi alta tra tradizione e avanguardia, tentativo divenuto con loro una delle più interessanti e vivide realtà. Oggi dirigono il giovane D’Elia il quale, come precisa Randisi, «fin da subito ci ha chiesto uno studio sull’attore, sulla verità e credibilità scenica, per approfondire e arricchire, nel suo lavoro, la tecnica della narrazione. Noi abbiamo risposto chiedendogli un forte coinvolgimento emotivo, la necessità di ogni gesto, di ogni parola, per non “rappresentare”, sulla scena, ma “essere”».
I dipinti di Caravaggio evocati nel corso dello spettacolo, spiega Vetrano, «sono raccontati nel loro processo creativo, come se la loro realizzazione avvenisse in quel momento, davanti agli spettatori. All’inizio il suono di un’onda e di una risacca ci portano a frammenti la storia della sua vita straordinaria, e lo stesso suono si sente di nuovo alla fine, come se quei suoi ultimi quadri, perduti da Caravaggio sulla nave del rientro a Roma e mai più ritrovati, se ne portassero via il mistero. Raccontando i dipinti emerge una vita turbolenta, dolorosa e a tratti violenta verso sé stesso e verso gli altri, e si capisce che è proprio dal suo carattere così emotivo che sono potuti nascere questi capolavori, assieme alla poesia dell’ispirazione artistica. Quella luce filtrata da un buco sul soffitto che cade su soggetti illuminati per metà, le pennellate date con rabbia o delicatezza ci fanno entrare nella sua bottega di artista».
La messa in scena sarà caratterizzata dalla semplicità dell’allestimento «fatto di poche stoffe, velluti, adagiati su una lunga pedana/letto, che si richiamano ai colori e alle luci di quei quadri – continua Randisi —, in un museo possiamo stare ore ad ammirare un quadro di Caravaggio, in teatro subentra lo stupore delle emozioni che arrivano quando la parola o un gesto raccontano quella tela».
L’auspicio per registi, autore e attore è che lo spettacolo disegni un ponte tra ieri e oggi «e contenga la misericordia, la compassione per l’umile e il reietto che sembra trasparire nelle tele di Merisi – conclude D’Elia —, dove trova posto quell’umanità sola in cerca di tenerezza, di un abbraccio che scaldi, l’umanità di oggi che fa i suoi tentativi, sbaglia, si mette in viaggio, cade, si rialza e scopre infine che il miracolo più prossimo è quello dell’incontro con l’altro, profugo, nemico, carnefice, compagno, santo o dannato che sia».
Conclude Vetrano: «È un viaggio nella nostra memoria, in quei quadri e quelle immagini che abbiamo visto e poi magari dimenticato, e di cui scopriamo ora nuovi aspetti, nuovi particolari, nuove vibrazioni», sempre nuovi oggi in un antico ieri.