La Lettura, 21 ottobre 2023
I bambini Jenisch rapiti alle famiglie in Svizzera
La folla circonda la piazza. I musicisti suonano. Due bambini con naso e guance truccati di rosso tengono il tempo. Al centro, un orso; in realtà un costume dal quale emergerà una suonatrice di fisarmonica: uno spettacolo messo in scena da Lubo Moser e dalla sua famiglia, nomadi Jenisch, artisti di strada nella Svizzera del 1939 circondata dalla guerra. La scena apre Lubo, nuovo film di Giorgio Diritti, coproduzione italo-svizzera presentata in concorso alla Mostra di Venezia e in sala dal 9 novembre per 01 distribution. Chiamato nell’esercito elvetico per presidiare il confine con la Germania, Lubo (Franz Rogowski) scopre che la moglie è stata uccisa mentre cercava di impedire ai gendarmi di portare via i figli.
Diritti rievoca una vicenda sconvolgente. Atti simili avvennero davvero. Dal 1926 l’associazione filantropica Pro Juventute mise in atto un programma denominato Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse («Opera di soccorso per i bambini della strada»), finanziato dalla Federazione elvetica. L’obiettivo: fermare il nomadismo. Il metodo: strappare i bambini di etnia Jenisch ai loro genitori per «educarli». Furono ricollocati in famiglie affidatarie, orfanotrofi, istituti psichiatrici ma anche prigioni, dove molti subirono violenze, vennero sfruttati come manodopera a basso costo, sterilizzati. Il programma fu interrotto solo nel 1973. I numeri esatti non si conoscono: gli archivi della Pro Juventute contano 585 bambini, ma le stime arrivano a duemila.
«Dobbiamo essere vigili contro le ingiustizie, contro chi si arroga il diritto di trasformare gli altri». Raggiunto da «la Lettura», il regista parla del film, liberamente ispirato al romanzo di Mario Cavatore (1946-2018), Il seminatore, che il 31 ottobre torna per Einaudi.
Che cosa la colpì di questa storia?
«Il fatto che queste vicende, che mettono in gioco dinamiche vicine al nazismo, fossero avvenute in Svizzera, democratica, ordinata, buona... E poi la contrapposizione con il senso di libertà della vita nomade; e, naturalmente, il fatto che duemila bambini siano stati portati via dalle loro famiglie: una delle cose più orrende al mondo. Lo vediamo in questi giorni: la guerra è terribile da ogni punto di vista, e ancora di più lo è il sadismo di portare via persone, di fare ostaggi, ricattarli, ucciderli».
La vicenda dei bambini Jenisch è ancora poco nota. Valentina Pedicini, scomparsa nel 2020, ne ha fato un film nel 2017 dai racconti della poetessa Mariella Mehr (1947-2022): «Dove cadono le ombre».
«Nella stessa Svizzera la vicenda è stata tenuta a lungo nascosta. La fece emergere nel 1972 Hans Caprez sulla rivista “Beobachter”: aveva raccolto varie storie e capito che non si trattava di casi isolati, ma di un sistema. All’inizio fu tutto sminuito, poi a livello politico e istituzionale il programma è stato riconosciuto e condannato».
Come si sono svolte le ricerche per il film? Tra i consulenti c’è Uschi Waser, che visse il dramma.
«Il romanzo è stato una guida. Con Fredo Valla (cosceneggiatore), e lo stesso Cavatore prima che morisse, abbiamo analizzato testimonianze letterarie e storiche. Poi ho voluto sentire chi quelle vicende le ha vissute: così ho incontrato Uschi che da bambina era stata in vari collegi. Le sue emozioni, i suoi racconti e quelli di altri Jenisch, che hanno creduto nella forza della testimonianza, mi hanno motivato. Come in L’uomo che verrà (2009), sulla strage di Marzabotto, dagli incontri è nato in me l’obbligo di fare il film. Sarà un grido nel deserto, ma si devono sempre gettare semi per una società più accogliente, un mondo più armonico che rifiuta la violenza».
Il film è diventato altro rispetto al romanzo?
«Il percorso del libro è molto diverso: segue Lubo nella prima parte; ma poi sparisce e la narrazione si concentra sui figli. Io mi sono invece concentrato su Lubo, ne ho modificato il percorso, l’ho ampliato nel tempo».
Segue Lubo per una ventina d’anni: diserta per cercare i figli; uccide, ruba l’identità e la ricca merce di quello che crede un commerciante; cerca vendetta, prende contatto con la Pro Juventute; si innamora, prova a costruire una nuova vita e un’altra famiglia...
«Mi è sembrato importante parlare di quanto successo ai bambini, che da quei percorsi rimangono segnati per sempre; ma anche mostra la reazione di chi subisce, da genitore, la violenza dell’allontanamento. Due elementi potenti perché raccontano la responsabilità degli Stati e delle leggi, che diventano le chiavi su cui nella dimensione della società si possono commettere disastri incredibili. Purtroppo, lo vediamo ancora».
«Abbiamo perso il senso della giustizia se sono le leggi che dovrebbero proteggerci a generare violenza», viene detto nel film.
«È così. Il Lubo che ho costruito, al discorso di Elsa sui bambini Jenisch che dovrebbero essere sterilizzati (sostenitrice del progetto, li definisce “animaletti selvaggi”, ndr), risponde: “Credo che la migliore educazione sia amare”. Nel libro, Lubo è un seminatore nel senso che si vendica mischiando le razze (“semina” figli in tutta la Svizzera, ndr); cosa in parte presente nel film, dove volevo però mostrare in lui una logica diversa di approccio alla vita. In tal senso la scena dell’orso che danza e si trasforma è una premessa alla capacità di cambiamento».
In Lubo convivono due anime, quella dell’amore e quella della vendetta.
«Alla fine credo vinca l’anima dell’amore. Il suo inganno viene scoperto, ma accetta la prigione per garantire ai figli un futuro migliore».
Il film riflette sull’approccio alla diversità?
«Il tema della diversità è ormai una caratteristica del mio lavoro. Siamo in un momento storico tra i più difficili: i social e la comunicazione pubblicitaria in generale hanno molto rafforzato l’io egoistico. Si toglie il senso di società, che è relazione tra persone che insieme riescono a fare quello che da soli non potrebbero».
Anche in questo film, lei pone grande attenzione alla lingua: tedesco, jenisch, italiano. Per gli attori è stato un grande lavoro di immersione?
«È stato un film difficile: oltre cento location, lingue e culture diverse. Franz Rogowski, tedesco, ha dovuto imparare lo svizzero tedesco che proprio perché simile alla sua lingua madre poteva creare problemi; conosceva l’italiano ed è stato aiutato sullo jenisch, lingua solo parlata. La versatilità e l’adattamento di Franz sono stati preziosi. Ha avuto l’energia e il volto giusti per trasferire la doppia dimensione di Lubo, il contrasto tra il desiderio di vendetta e lo smarrimento, la ricerca della vita, il desiderio di sfida al senso generale delle cose».
L’uomo che Lubo deruba e uccide è un ebreo austriaco che stava provando a mettere in salvo tutto ciò che era rimasto a un gruppo di ebrei; altri perseguitati come lui. Un ulteriore piano di lettura?
«Racconta la catena del male che, nascendo da leggi e argomenti sbagliati diventa qualcosa di ancora più grande: così da persecuzioni nascono ulteriori persecuzioni. Bisogna spegnere i fuochi prima che diventino incendi. Credo che un grande lavoro di cura sul valore della diversità debba essere fatto a scuola, ambiente multietnico dove persone ancora nella fase della costruzione del sé possono trovare un senso di convivenza».
In «Rapito», Marco Bellocchio ha affrontato una vicenda simile, quella di Edgardo Mortara, bambino ebreo sottratto nel 1858 alla famiglia dallo Stato pontificio per essere cresciuto come cattolico. C’è un’urgenza nel portare sullo schermo queste storie?
«Noi autori cerchiamo occasioni di riflessione, ma mi chiedo se ci sia nella società una sensibilità rispetto a questi temi, o se il giudizio e il pregiudizio siano diventati troppo ampi. Il cinema, come la letteratura, dovrebbe diventare parte dei percorsi educativi. Abbiamo bisogno di ritrovare il senso della cultura come occasione importante per una società migliore».