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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Intervista a Michieletto su Offenbach

A Damiano Michieletto, I racconti di Hoffmann di Jacques Offenbach (1819-1880) piacciono fin dall’indicazione in partitura: «Opera fantastica», sorride il regista a «la Lettura» via Zoom. Dopo il successo ottenuto a Sidney con la sua messa in scena (finita fra i candidati agli Opera Award internazionali come migliore spettacolo del 2023), Michieletto porta ora l’allestimento al Teatro La Fenice di Venezia dal 24 novembre al 2 dicembre. «Opera fantastica — prosegue – è una definizione che già suggerisce di non prendersi troppo sul serio. Offenbach è un antidoto, mette brio, elettricità. Se ne fregava delle etichette. I suoi lavori invitano a veleggiare verso storie e ambienti surreali, pieni di magia».

Lui stesso potrebbe essere un personaggio irriverente di una sua opera.
«La fotografia che si conosce di lui, con gli occhialini e quello sguardo... Sembra un po’ un topolino. Tutto il contrario del compositore impettito, in posa. È stato un grande musicista, associato però sempre a un termine diminutivo, operetta. Come casetta, piazzetta...».
Richard Wagner, per usare un eufemismo, non lo amava: paragonò la musica del collega al calore del letame.
Ride: «Beh, il letame però è fertile, utilissimo per la civiltà contadina era oro».
I suoi «Racconti di Hoffmann» descrivono le fasi dell’amore nella vita.
«Li ho concepiti come una storia a capitoli, in ognuno dei quali c’è una fase della vita del protagonista».
Un percorso attraverso le età?
«Sì, nel primo episodio Hoffmann è un bambino, nel secondo un giovane uomo, nel terzo un uomo maturo e all’inizio e alla fine un anziano, che passa le sue giornate in un bar a ricordare il passato. E ogni episodio è incentrato su una storia d’amore: dal primo, infantile, quando per la prima volta si guarda qualcuno con occhi diversi, attraverso quello maturo e consapevole, per arrivare a quello più trasgressivo e cinico, sessuale, disincantato».
In ogni episodio compare il diavolo.
«È l’ingrediente surreale, metafisico, dissacrante, che ogni volta spezza la possibilità dell’illusione di un amore».
Però lei il diavolo non lo rappresenta come il maligno assoluto.
«Bisogna ridere con il diavolo. Mi diverte l’aspetto diabolico della tentazione, del pericolo. Se togli il diavolo a I racconti di Hoffmann, non c’è più storia».
Quando lei lavora a un’opera la fa diventare una sua ossessione?
«Durante le prove, ma non nella fase di preparazione. In prova si sente la scadenza in arrivo, si fa il conto alla rovescia, subentra l’ansia del perfezionismo, anche se la perfezione non esiste, però si cerca di fare meno errori possibili. Mi addormento pensando all’opera. Ho notato che il pensiero che ho prima di addormentarmi è lo stesso con il quale mi sveglio».
Sempre?
«Sì, se io alla sera prima di addormentarmi ho visto una partita di calcio, mi sveglio al mattino pensando nel dormiveglia a uno che tira in porta e fa gol. Per questo consiglio sempre a tutti di non andare mai a letto arrabbiati».
Qual è il momento dell’opera che l’ha messa più in difficoltà?
«Come spesso accade, le cose che ti mettono più in difficoltà, che ti piacciono meno, diventano poi quelle che ti vengono meglio, perché ci dedichi molto più tempo ed energie. Con i Racconti di Hoffmann all’inizio mi lasciava perplesso l’atto in cui il protagonista si innamora di Olympia, una bambola meccanica, pensando che sia una persona reale».
Come ne è uscito?
«Ho puntato sul concetto di ingenuità dei bambini, quando a volte non si accorgono di ciò che accade realmente. Hoffmann per esempio con Olympia è un po’ come Pinocchio con la fata Turchina: si innamora di qualcosa che non è reale. Alla fine, da scoglio iniziale, è diventato forse l’atto più divertente di tutti».
Da regista, lei punta a essere descrittivo o a suggerire e lasciare più spazio possibile alla fantasia dello spettatore?
«L’equilibrio giusto è riuscire a mettere queste due cose insieme, ma in linea di massima penso di essere un regista che ha molta cura della narrazione: io voglio raccontare una storia. E se devo essere proprio manicheo, non mi basta creare un gesto estetico che il pubblico riempie con la sua fantasia. Voglio riuscire a raccontare la storia e raccontarla però anche in maniera esteticamente molto forte».
Quanto conta lo stupore per lei?
«Conta. La parola deriva da stupido: per un attimo si mette la bocca a forma di O, si tira indietro il busto e ci si stupisce. Lo stupore non deve però mai essere fine a sé stesso, lo si deve usare come un trampolino che porta altrove».
Che genere di regista è lei?
«Un regista con i piedi per terra, che cerca di fare dei salti».
Sente di appartenere a una scuola?
«Quando ho iniziato, mi ha molto affascinato Peter Brook. Era l’unico di cui ero riuscito a leggere i libri: vi sentivo una voglia di umanità, semplicità, comunicazione, di essere diretto, di essere franco, di non usare trucchetti e non usare neanche etichette, e questo mi piaceva».
Che lavoro è quello teatrale?
«È un lavoro sempre teso da un pensiero, ma che deve poi concretizzarsi in una pratica molto diretta, onesta e concreta».

Cosa risponde a chi dice che la regia in un’opera lirica oggi prende troppo spazio rispetto alla musica?
«Quando si dice che si dà troppo spazio, bisogna anche uscire dall’ambiguità e metterci un soggetto. Chi dà molta importanza alla regia? Il primo penso sia il sovrintendente: non credo che un regista si autoinviti a fare ciò che vuole...».
È d’accordo però che la regia abbia più importanza rispetto al passato?
«Si dà tanto peso al regista, perché nel momento in cui storicamente l’opera lirica si è fossilizzata su un cartellone più o meno prestabilito di titoli e di autori, è chiaro che ogni teatro ha bisogno di una dose di novità. Tutti vendono la stessa merce, e quindi devono anche renderla unica, diversa, nuova. E visto che la musica non può essere toccata, le possibilità di intervento sono legate alla regia».
Il palco inteso dunque come spazio da riempire a proprio piacimento?
«Il palcoscenico, per definizione, è una scatola nera vuota, nella quale tu scrivi la tua storia e ovviamente la scrivi usando il linguaggio teatrale di oggi. Quando usi le luci quindi, non usi quelle delle candele o quelle a petrolio, ma usi i prodotti tecnologici che ci sono adesso, i videoproiettori e affini...».
Nel dopoguerra molto spesso il nome del regista nel cartellone non c’era perché non c’era un regista. Oggi il nome del regista è scritto invece grande come quello del direttore d’orchestra.
«Il lavoro del regista non è il più importante, voglio essere chiaro su questo. Prima bisogna avere un drammaturgo per la storia e un compositore per la musica. Ai tempi di Shakespeare, quindi nel periodo più fantasmagorico del teatro, non c’era regia. Anche tutta la storia della lirica è stata fatta senza un regista».
Il problema di oggi qual è?
«Che non stiamo facendo la storia dell’opera lirica ma stiamo rimettendo in scena cose del passato, quindi serve un regista che quelle vecchie storie te le sappia riraccontare in maniera nuova».
Cosa dice delle opere nuove?
«Ce ne sono poche e nel momento in cui fai la prima, spesso, e aggiungo purtroppo, stai già facendo il loro funerale».
Perché?
«Si fanno le prime sempre in pompa magna, poi bisogna vedere però se l’opera resiste alla prova del tempo».
Un compositore suo eroe?
«Leoš Janácek. Debuttò in uno scantinato senza niente, però le sue opere continuiamo a portarle in scena».
Una regia recente che l’ha colpita?
«Quella di Simon Stone a Salisburgo per The Greek Passion di Bohuslav Martinu».