La Lettura, 21 ottobre 2023
Morandi dipingeva in camera da letto
Il messaggio è chiaro. La grande retrospettiva curata da Maria Cristina Bandera al Palazzo Reale di Milano ribadisce, se ci fosse stato mai un dubbio, che Giorgio Morandi è uno dei nostri più importanti artisti del secolo scorso. E sbaglia chi lo trova ripetitivo, perché le 120 opere presentate, che coprono l’intera sua produzione, 50 anni di attività, sono sì simili, ma non per le infinite declinazioni di ceramiche e bottiglie su un tavolo, piuttosto per l’incessante, profondissima e personale ricerca di poetica che mai finirà di stupirci. Morandi non è stato un artista incompreso, ha avuto dalla sua critici di grande statura, Roberto Longhi e Cesare Brandi, Lu-dovico Ragghianti e Francesco Arcangeli, ed è sempre stato sostenuto da collezionisti illuminati come Luigi Magnani, Emilio Jesi, Lamberto Vitali.... Ancora oggi, è tra i pochi artisti italiani il cui valore è costante nonostante mode e altalene.
Qual è dunque il suo segreto? La rassegna, tra le maggiori di questi ultimi decenni, si avvale di prestiti eccezionali che consentono di seguire passo dopo passo il suo percorso. Prima di diventare maestro assoluto della pittura tonale, e pur senza mai essere andato a Parigi, con delicatezza innata e quasi in punta di piedi, il giovane Morandi assimila le coordinate spazio/tempo dettate da Cézanne e Picasso. La prima sezione della mostra, con una serie di desueti dipinti precoci, in cui appare per poi scomparire per sempre la figura umana, lo dimostra bene. Tra il 1918 e l’anno successivo, creando opere costruite e severe, dove la composizione dei solidi e la monotona densità dei toni bruni svelano già una forte autonomia nei confronti di Carrà e de Chirico, l’artista si avvicina alla Metafisica.
Sebbene importante, la breve parentesi viene presto abbandonata per ritrovare la realtà della luce, elemento che diventerà fondamentale per lo sviluppo della sua pittura tonale. Il mondo in cui si muove è piccolo, ma non una torre d’avorio in cui si isola, piuttosto una cella monastica, scriverà Longhi, dove prepara con cura i soggetti delle sue nature morte.
Dipinge solo nella sua modesta camera da letto dell’appartamento di via Fondazza a Bologna dove vive con la madre e tre sorelle, ricopre con la carta il tavolo dove prepara le installazioni, cerchiando le posizioni dei vasi per segnare lo spazio prima di metter mano ai pennelli. Camuffa con tempera bianca vasi e bottiglie affinché la luce venga assorbita, cerca contenitori dalle forme elementari ma anche più ricercate, come gli inconfondibili vasi dal collo allungato oppure scatole o bottiglie barocche, oggetti sempre perdutamente asciutti e opachi. Sovrappone e salda un imbuto a un cilindro per creare un solido di fantasia e utilizza fiori secchi o di stoffa per adornare eleganti vasetti di struggente malinconia.
Le decine di nature morte che si susseguono in mostra scandiscono via via i suoi afflati, memori di Piero della Francesca o di Andrea del Castagno, quando la luce è chiara, polverosa come in un affresco, del tutto priva di ombre e ci fa quasi sentire l’odore del gesso, come in un’irreale gipsoteca di oggetti senza storia, eterni nella loro banale quotidianità.
A volte l’artista sembra invece volere accogliere sulla tela le ombre nette e radenti del Caravaggio romano, creando un’atmosfera irreale dove i toni chiari e rarefatti dei piani e degli sfondi nulla hanno da spartire con il segno marcato e definitivo di lunghe ombre solide e scure. I soggiorni estivi e nel periodo in cui era sfollato a Grizzana sull’Appennino bolognese, ci regalano paesaggi straordinari dove ancora una volta la luce e i volumi sono protagonisti. Si tratta di tele dipinte dal vero ma che ci proiettano in paesaggi «inameni», diafani, dove le case diventano volumi quanto i vasi delle sue nature morte, dove l’uomo è disperatamente assente, sono paesi fantasma, sfumati, colti come attraverso un cannocchiale, risolti con macchie di colore in piena luce meridiana o marcatamente vespertina che impone tristi ombre sfilate.
Nel 1960, come per scusarsi quando ormai la sua vita era al volgere, Morandi dichiarò che era riuscito a evitare il pericolo di ripetersi perché ciascun suo dipinto era una variazione sul tema. Oggi possiamo affermare che ogni sua variazione era e resterà per sempre una lezione di pittura.