La Lettura, 21 ottobre 2023
Sandro Penna collezionista d’arte
Molti hanno negli occhi le foto della casa di Sandro Penna negli ultimi, faticosi anni della sua vita. Un cumulo di oggetti, un disordine inestricabile e un lettuccio su cui il poeta passava alla fine gran parte del tempo. Non tutti sanno che alle pareti, ma anche altrove nella casa, accatastate, accumulate, si trovavano opere di artisti importanti, raccolte nel corso del tempo. Penna aveva fatto per anni, specie con il rarefarsi dell’ispirazione poetica, uno strano mestiere, che poi mestiere in senso stretto non era. Acquistava o si faceva donare dagli artisti tele, opere grafiche, litografie e poi rivendeva, specie nei momenti di necessità, alcuni di quegli oggetti d’arte, senza essere propriamente un mercante, né un critico, né un gallerista.
Penna viveva insomma nella casa, sempre più dissestata e disordinata, di via della Mola dei Fiorentini a Roma (a un frequentatore dei poeti del Novecento può venire in mente l’abitazione milanese sui Navigli di Alda Merini), immerso in una specie di museo privato di arte moderna, un museo disseminato tra gli oggetti della quotidianità più modesta. Si andava da Giovanni Fattori a molti significativi artisti del Novecento, tra cui alcuni di quelli più amati da Penna, come Filippo De Pisis, Franco Gentilini, Mario Mafai. Così racconta l’incontro con il poeta, sul finire della sua vita, l’artista Cristiana Isoleri (1926-2022), che avrebbe poi collaborato con lui per alcuni libri: «È il 27 febbraio del 1975. Sono le sette di sera. Franco Simongini mi accompagna da Penna. Sono emozionata. Vorrei da lui delle poesie inedite per fare una mia cartella. Mi fa sedere sulla sua branda, disfatta, forse da sempre. Ci sono cumuli di cose usate, rifiuti dappertutto. Un sottile senso d’angoscia, un’emozione sempre più profonda, a poco a poco un’ammirazione per l’uomo, per la sua mancanza di pudore, per la sua assoluta onestà nell’offrirsi così scoperto fino in fondo nella sua solitudine e sofferenza. D’un tratto capisco in lui il rifiuto dei gesti quotidiani; l’inutilità dei gesti quotidiani. Cerca a lungo senza affanno, quasi assente; poi alcuni fogli sono nelle sue mani. Con la sua voce bellissima mi dice: “Queste sono le prime poesie che ho scritto, sono del 1924 e sono sue”».
Dopo la morte del poeta, avvenuta nella sua casa romana il 21 gennaio 1977 (era nato a Perugia il 12 giugno 1906), il critico d’arte Bruno Corà è chiamato a stilare un inventario delle opere lì custodite, prima che l’appartamento venga sgomberato, come disposto dal Comune di Roma. Si tratta di una collezione di tutto rispetto, certo rimanenza di un insieme più ampio di pezzi, via via alienati. Ci sono nomi importanti del Novecento e nomi della scena artistica romana contemporanea, in particolare quelli della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, con i quali Penna aveva stretto legami di amicizia e di intesa creativa: si possono ricordare ad esempio Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Mario Schifano. Di Angeli, in particolare, Penna possedeva un intenso acrilico su tela, intitolato Solo com’è lui, raffigurazione di un cane con sottolineatura cromatica rossa, che dialoga con la passione del poeta per i pastori tedeschi (come l’amata cagna chiamata la Battini) e che rimanda alla solitudine propria dell’artista e dello scrittore. Molti di quei pezzi appartenuti a Penna, assieme ad autografi e dattiloscritti di sue poesie e prose (ma non mancano le fotografie e la documentazione filmata, che ritrae Penna nel suo domicilio, mentre discorre di arte e di artisti), sono oggi esposti in una mostra a Perugia, presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, intitolata Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative, aperta fino al 14 gennaio. La mostra è a cura di Roberto Deidier, Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi: Deidier e Mozzati sono anche curatori del catalogo, edito da Magonza. Ci sono tra l’altro vari ritratti del poeta-collezionista, motivati proprio dai rapporti amicali stretti con artisti e anche con disegnatori d’eccezione, come Pier Paolo Pasolini, che gli dedica due raffigurazioni a penna su carta, non prive di una loro capacità di analisi introspettiva. I ritratti più impegnativi e artisticamente compiuti sono quelli di Orfeo Tamburi (Sandro Penna a Villa Borghese), di Carlo Levi (Ritratto di Sandro Penna), di Mario Mafai (Ritratto di Sandro Penna), per citarne alcuni. Ma si possono ricordare anche il disegno di Gabriele Mucchi che accompagna il volume delle Poesie uscito da Parenti nel 1939 e quello di Orfeo Tamburi che illustra gli Appunti, pubblicati dalle Edizioni della Meridiana nel 1950. Poi ci sono nella collezione i pezzi amati dal poeta, da lui prediletti e cercati, anche con insistenza, presso gli stessi artisti (che talvolta gliene facevano dono, anche con dediche), oppure acquistati in occasione di aste, dove Penna tuttavia non poteva permettersi l’esborso di grosse cifre. Così ricorda la puntata del collezionista-poeta a un’asta milanese, in zona Brera, un cronista di prestigio del Corriere della Sera, Dino Buzzati (16-17 novembre 1962): «Simpaticamente notato, iersera, per i numerosi interventi, il poeta Sandro Penna, che fra l’altro si è aggiudicato dei “tagli” di Fontana per 320 mila e un evanescente disegnino di Morandi per la cifra, secondo me addirittura folle, di duecentosettanta. Seduto a fianco di Cardazzo, il quale con dei colpettini di gomito gli faceva capire se era il caso o no di arrischiare, Penna si faceva vivo spesso, ma con rialzi microscopici. “Centosettanta e uno, centosettanta e due...” faceva il dottor Sasso battitore. Sandro Penna alzava la mano. “Centonovanta e uno per il poeta, centonovanta e due...”. “No, no – rettificava Penna – io intendevo centosettantacinque”. “Non si può – replicava Sasso – per rialzare, centonovanta è il minimo”. “Allora niente”. E il poeta si richiudeva nel guscio».
Si arriva così a parlare delle doti di intenditore di Penna. Lui diceva di sé di non essere un critico d’arte e si negava a ogni competenza specialistica, tenendosi fedele a un fondo di nonchalance che certamente lo caratterizzava. L’unico testo che scrisse su un artista è quello dedicato a Franco Gentilini, che non venne utilizzato e che rimase a lungo inedito. È di poco posteriore al 1953 e inizia così: «Non sono un critico, e tanto meno un critico d’arte. Amo molto i bei quadri, li colleziono con gioia, ma direi che in tutto questo non è estraneo il piacere sia del collezionare in genere sia del riuscire a portare a casa un oggetto che si spera di maggior valore di quello che ci è costato. Voglio dire, insomma, e il discorso lo lascio calare perché mi pare debba coinvolgere altre e altre persone oltre che me (se no non avrebbe alcuna importanza), voglio dire che se il mio amore per l’arte fosse puro io dovrei evidentemente appagarmi più di una visita a una galleria non del tutto deteriore che alla semplice vista della mia collezione (leggi: una brutta casa tutta tappezzata di quadri eterogenei accostati a casaccio, e per quale piacere solo un esperto freudiano direbbe)». Dopo questa premessa e dopo essersi giustificato per la sua «incapacità critica» e la sua mancanza di vocabolario tecnico, vantando invece un «infallibile gusto», di cui però rifugge dal dare una spiegazione letteraria, Penna, che certo non era uno scrittore-storico dell’arte alla Giovanni Testori, arriva comunque a stringere su Gentilini e su alcune sue opere. E fornisce ad esempio la descrizione di una tela ora in mostra a Perugia, proveniente da una collezione privata, vale a dire Torre di Pisa e biciclette. Ecco come vi si accosta il poeta: «Noi tenteremo soltanto, ormai, di scegliere il meglio, se ciò è lecito e possibile fare. Preferiamo, personalmente almeno, quei momenti in cui l’ironico si libera per noi di quel più di cattiveria e si colora invece di un misterioso lirismo. Pensiamo a un quadro dove sotto la fatidica Torre di Pisa è un triste muro morto e sotto ancora nel buio tutto un intreccio di ruote e biciclette e ruote, groviglio geometrico e popolaresco insieme, lontano dal freddo astratto, e dal patetico troppo caldo: s’indovina l’autore dentro un umile negozietto di cicli...».
L’olio su tela di Gentilini, visto e ammirato dal poeta, ha un’aura da pittura metafisica. E proprio tale pittura, di un Giorgio de Chirico in particolare, è quella che più intimamente sembra collegarsi alle atmosfere atemporali, enigmatiche, della poesia di Penna, al di là di certi tocchi di visività e colore. Pensiamo a un quadro come Mistero e malinconia di una strada, dipinto da de Chirico nel 1914. Penna deve averlo meditato e sentito depositare dentro di sé, a lungo. La sua poesia è spesso un discorso tessuto sul filo di quel mistero e di quella malinconia. A proposito, nella sua casa-magazzino Penna possedeva (è in mostra a Perugia) una sorta di omaggio di Mario Schifano a quell’opera di de Chirico: Attraverso una piazza, del 1972, tela emulsionata che riprende il soggetto del quadro dechirichiano. Del resto, delle atmosfere in comune tra Penna e grandi artisti del Novecento, come Carlo Carrà e de Chirico, si potrebbe discorrere a lungo. Basti qui accennare a un testo poetico di Penna, pubblicato in rivista nel 1945: «“Lasciami andare se già spunta l’alba”./ Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti/ capanni interminabili sul mare./ Fra gli anonimi e muti cubi anch’io/ cercavo una dimora? Il mare, il chiaro/ mare non mi voltò con la sua luce? Salva/ era soltanto la malinconia?/ L’alba mi riportò, stanca, una via».
Sembra la contropartita verbale di un’immagine metafisica, alla de Chirico appunto, non senza un’ambientazione marina alla Carrà. Questo perché i fotogrammi di Penna, al di là dell’ossessione del fanciullo e del tema omoerotico, sono immersi nel ricordo, sono scene sottratte al tempo e quindi fatte già memoria. Come in una pittura, come in un lampo di metafisica fissità.