La Lettura, 21 ottobre 2023
Paolo Conte e la pittura
«La musica si muove e la pittura rimane ferma»: Paolo Conte racconta così a «la Lettura», come se fosse il verso di una (sua) canzone, la differente passione che da sempre lo lega all’arte. Una passione all’origine della mostra che gli Uffizi di Firenze dedicano fino al 7 gennaio proprio ai disegni di Conte, per la quale il cantautore e musicista, nonché ex-avvocato (nato ad Asti il 6 gennaio 1937) ha dettato una sola condizione: un allestimento rigorosamente in nero. Tanto, a fare decollare il viaggio travolgente nella fantasia (sua e dei visitatori), ci pensa un titolo che è un programma (Nostalgia di un golf, un dolcissimo golf di lana blu, citazione da Una faccia in prestito del 1995) e, soprattutto, l’incredibile varietà di soggetti (macchine, ballerine di giava, sassofonisti, boxeur) e tecniche (matita, gouache, pastelli a olio, inchiostri, pennarelli, acquerelli) che caratterizzano le due sale del museo dove è concentrata una selezione di 69 disegni, molti inediti, realizzati da Conte dagli anni Settanta a oggi (le stime assicurano che la sua produzione «globale» sia di almeno cinquemila opere).
Prima di tutto: come ha scoperto Conte la pittura? «La pittura mi ha affascinato fin da bambino – confessa ancora a “la Lettura” –, ho iniziato a disegnare in maniera spontanea, poi ho coltivato le mie capacità prendendo lezioni da un’insegnante dell’Istituto di Belle Arti di Torino. La pittura è dunque arrivata diverso tempo prima della musica. Andando avanti, le due passioni hanno iniziato a interagire tra loro a intervalli non regolari».
Il risultato è un universo molto jazz fatto di frammenti «in libertà», di fotogrammi per un film in bianco e nero senza sceneggiatura, di sequenze in cui si intrecciano sogno e realtà. Un universo che sintetizza suggestioni vissute in prima persona: quelle artistiche del Blaue Reiter e dell’espressionismo tedesco, del Boccioni della Città che sale, del Campigli con le sue (tante) donne dalla silhouette a clessidra, dell’astrazione come della figurazione. Ma anche un universo profondamente segnato da quella letteratura e da quella musica che Conte ha sempre molto amato e molto frequentato come dimostrano i titoli delle opere (vicine all’astrattismo) del periodo più recente: Alfieri. Mirra; Dino Campana. Canti Orfici; Schumann. Kreiseleriana; Gershwin. Lullaby; A Enrico Baj; Goldoni. Le baruffe chiozzotte; Manuel de Falla. Danza Ritual del Fuego; Baudelaire. Les Fleurs du Mal; Boccherini. Minuetto (tutte del 2023, tranne A Enrico Baj del 2018). Insomma, un affascinante «calderone» di musica, parole e colori dove tutto si mescola: alto e basso, allegria e tristezza, sogno e incubo, buio e luce.
«Ho già avuto occasione di spiegare che il vizio della pittura e del disegno è nella mia vita più antico di quello per la musica e per le canzoni – scrive Conte nel catalogo della mostra in via di pubblicazione da Giunti —, confessando anche che la composizione musicale manovra su di me in forma di eccitazione, mentre pittura e disegno mi danno calma e leggerezza». Le ragioni del titolo della mostra? «Dopo le mostre dedicate al mio lavoro multimediale Razmataz, dove nel Dvd erano state montate 1.800 mie illustrazioni, la mia frequentazione con l’arte si era in qualche modo fermata, anche per la legittima preoccupazione che quel tanto di notorietà acquisita come canzonettista potesse indurre a pensare che ne volessi in qualche modo approfittare. Così i miei lavori sono tornati nei cassetti, appunto come la nostalgia di un dolcissimo golf di lana blu».
Nella mostra fiorentina la genialità (potremmo dire trasversale) di Conte trova definitiva conferma, secondo la curatrice Chiara Toti, «grazie a una grande confidenza con la tecnica della pittura che gli permette di fermare sulla carta tutta la forza della sua immaginazione». Ed è la stessa confidenza tecnica che fa utilizzare a Conte procedimenti che potrebbe assomigliare a un arrangiamento «per pianoforte e orchestra» con un tema più volte ripreso e trasformato dall’autore: solo che stavolta invece delle note Conte utilizza penne o pastelli e persino la fotocopiatrice (una prima versione disegnata, poi la copia e infine il colore). Un procedimento seriale (in stile Warhol) che negli anni ha prodotto le due versioni di Prototipo (del 1968 e del 1970), di Traffico (del 1988), di Texas Mooner (del 1988), di Trombonista (del 1991 e del 2000), di Lettore di musica Razmataz (del 1981 e del 1988) e l’estrema somiglianza nell’impostazione e nelle pose tra le figure di Pianista e cantanti (del 1999) e Guitars (del 2000).
Se gli anni Trenta del Novecento restano per Conte un’Età dell’Oro, la sua ispirazione riesce però sempre a oltrepassare i limiti: in mostra c’è così un bellissimo ritratto di Individuo che cerca di somigliare a Michelangelo senza barba (1988, inchiostro nero su carta flou) dove più che al celebre ritratto dell’artista di Daniele da Volterra, Conte sembra volersi misurare con le fisionomie di Francis Bacon (Self-portrait, 1969) o di Lucian Freud.
La classicità dei modelli (quasi mai però antichi) ritorna con frequenza nei disegni di Conte: il Ciclista Rosso (1966) sembra guardare (ancora una volta) a Boccioni (oltre che ai personaggi del romanzo Eravamo immortali di Marco Cassardo, appena pubblicato per Mondadori), ma anche alla Goncharova. Le sagome allungate del Treno degli artisti (1999) suggeriscono invece un’altra delle grandi passioni artistiche di Conte, El Greco a cui il cantautore aveva dedicato addirittura una canzone (El Greco, appunto, del 2021) i cui versi potrebbero fare da manifesto per lo stesso Conte-pittore: «Sto dipingendo, quasi parlando/ Come scrivendo sto mormorando/ Vita, sogno, cose intraviste un giorno».
Ma non c’è soltanto El Greco: «Sono un appassionato di pittura e come tale ammiro molti altri, a cominciare da Dürer e Tiepolo». Il confronto con la classicità appare come una necessità prima di tutto personale: dei suoi lavori infatti Conte è sempre stato estremamente geloso (gli unici originali andati in asta sono stati battuti da Sotheby’s per 15 milioni l’uno) e molti disegni esposti agli Uffizi sono stati titolati soltanto in occasione della mostra. Il confronto, stavolta, è sollecitato in qualche modo anche da una questione logistica: i 69 disegni di Conte sono stati esposti al primo piano degli Uffizi, in due sale contigue a quelle dedicate ai ritratti e agli autoritratti (l’Autoritratto di un pirla di Conte del 1978 alla fine della mostra entrerà proprio in quella collezione).
«Tanti artisti sono stati musicisti e compositori di talento e in questa collezione vediamo che alcuni pittori si sono raffigurati con gli strumenti che suonavano, e che evidentemente costituivano un complemento così importante della loro personalità da doverli presentare accanto alla propria figura – spiega il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, che ha curato la mostra con Chiara Tito —. Così anche la mostra di Paolo Conte vuole testimoniare la doppia anima artistica di un grande musicista, e portare all’attenzione del pubblico questo aspetto forse meno noto, ma non meno fondamentale della sua creatività. E se di Conte si conoscono a memoria le melodie, ora è il momento di scoprire i suoi disegni che risentono di quello stesso mood, di quella stessa ironia che si ritrovano sempre nelle sue canzoni». Schmidt (che ancora ricorda con divertita emozione il concerto di Conte a Londra al quale aveva assistito nel 2015 con la moglie) dice che «sono disegni che abbiamo scelto insieme, dopo una prima scrematura, che non nascono per illustrare le sue canzoni, ma dalla stessa volontà di Conte di fare arte, di raccontarsi».
Schmidt ha avvicinato, dunque, i disegni di Conte a opere presenti nella galleria degli autoritratti e ritratti (la più vasta al mondo, 12 nuove sale e 255 opere dal quattrocento a oggi, da Taddeo Gaddi a Yan Pei-Ming) dove la musica (strumenti compresi) sono elemento fondamentale per definire la personalità di uomini e donne come nell’Autoritratto (1675 circa) di Job Adriaenszoon Berckheyde o nello Studio de Rubens di Cornelis de Baeilleurs (1645). Più in generale Schmidt sembra aver voluto intrecciare la passione di Conte per la pittura con quella di Leonardo per la musica (che avrebbe dipinto La Gioconda in un atelier riempito di musicisti) e, ancora, di Giorgione, Tintoretto, Ingres, Delacroix (che si dice abbia affrescato la chiesa parigina di Saint-Sulpice con un organo in sottofondo), Matisse, Klee, Kandinskij fino ad arrivare a pop-star come Bob Dylan, John Lennon, Janis Joplin, David Bowie.
Davanti a Red Hot Mama (1996) o a Serenata ad una statua (1997) viene però in mente con prepotenza la storia di Piet Mondrian (1872-1944), grande amante del jazz come Conte, come Conte affascinato dalla vita notturna di New York, personaggio ideale anche per una canzone in perfetto stile Conte. Assiduo frequentatore soprattutto del Minton’s Playhouse, tempio del jazz in cui si potevano trovare e ascoltare Charlie Parker e Dizzie Gillespie, Mondrian era anche un grande appassionato di boogie-woogie, tanto da intitolare una delle sue ultime tele (rimasta incompiuta), Victory Boogie-Woogie. Conte e Mondrian, oltretutto, non sono proprio totalmente estranei: nel 2019 Gregor Hildebrandt aveva ricreato le opere di Mondrian utilizzando i nastri delle vecchie audiocassette e in particolare, per la Mercedes-Benz Art Collection, di Non perderti per niente al mondo (1984), proprio di Conte. Perché Sotto le stelle del jazz «non c’è soltanto un uomo scimmia che cammina o forse balla», ma anche un musicista con l’anima del pittore.