La Lettura, 21 ottobre 2023
Sulla Renault 4
Siamo abituati a pensare che solo gli esseri umani facciano la storia. Ma cosa ne è di animali, elementi della natura, manufatti vari intorno a noi? Sono semplici cose, oggetti appunto, e non soggetti delle azioni, e quindi sono irrilevanti. Da vari anni questa visione antropocentrica sta cambiando: non solo rispetto agli animali e alla natura in genere, ma anche rispetto alle cose. Arjun Appadurai da tempo ha parlato di una vita sociale degli oggetti e della necessità di considerare tutto quello che è condensato nella loro materialità: idee, lavoro, viaggi, scambi economici, emozioni... Oggi siamo di fronte a un material turn, una svolta materialista nelle scienze umane e sociali che ci fa riflettere in modo diverso sul rapporto umano/non umano, anche alla luce delle nuove tecnologie.
Questo è tanto più necessario quando pensiamo a oggetti che hanno profondamente cambiato la nostra vita. Come le automobili, ad esempio, esaltate fin dalla loro prima apparizione dai futuristi come il mezzo per la definitiva conquista dello spazio e del tempo, di una vera libertà individuale, della velocità come espressione dello spirito moderno. Al di là della retorica, quanta parte in effetti hanno avuto le macchine Fiat nella storia d’Italia, e quanto hanno contribuito al sogno di un benessere diffuso per tutti?
Queste riflessioni vengono alla mente dopo la lettura del nuovo romanzo di Piero Trellini, R4. Da Billancourt a via Caetani (Mondadori), una saga centrata sull’automobile simbolo della casa Renault, che intreccia magistralmente le vicende di persone e macchine.
Tutto inizia con un’immagine mediatica che è ben familiare a tutti noi, il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro all’interno di una R4 color rosso amaranto il 9 maggio 1978. Da qui il racconto si dipana all’indietro, per scoprire i molteplici fili che hanno portato a quel momento, risalendo nel tempo quasi come in un romanzo storico.
Prima di tutto troviamo i grandi industriali dell’auto in Francia, sui quali svetta Louis Renault, uomo visionario e caparbio, che crea nel 1898 l’azienda meccanica di Boulogne-Billancourt, appena fuori Parigi, destinata a diventare una delle più importanti fabbriche del Paese, un po’ la Mirafiori di Francia. Ma conosciamo anche André Citroën, il concorrente di sempre, i fratelli Michelin, e poi vari altri imprenditori e funzionari, fino ad arrivare alle sponde italiane, dove in contemporanea nasceva la Fiat. L’automobile affascinava tutti, si creavano club dedicati e si organizzavano gare di velocità – ma era un giocattolo per pochi, soprattutto ricchi e aristocratici, anche se qualcosa stava già cambiando al di là dell’oceano, con Henry Ford che applicava i principi del taylorismo alla catena di montaggio.
La rivoluzione arrivò con la Prima guerra mondiale. La retorica bellicista esaltava l’immagine di uno scontro violento dove a fare la differenza erano il coraggio e l’eroismo del soldato: un’immagine romantica di fanti e cavalieri all’assalto che con il loro slancio vitale (élan vital) spezzavano le linee nemiche. Così almeno aveva insegnato Carl von Clausewitz, così era sempre stato. Ma la guerra mostrò un altro volto. Le mitragliatrici falciavano ogni assalto, i soldati rimanevano impantanati nelle trincee, colpiti da gas letali e bombe, e morivano senza vedere il nemico. L’eroismo umano non serviva, servivano le macchine. Come dimostrò l’utilizzo in fretta e furia di 1.200 taxi Renault per spostare con successo e rapidamente migliaia di soldati francesi a difesa di Parigi. Le macchine erano diventate protagoniste, in tutte le forme, compresa la novità di un automezzo corazzato e cingolato, cioè il carro armato, anch’esso prodotto da Renault con la sigla Fx (in risposta in verità ai primi esperimenti britannici con il Mark I).
Trellini ci guida nel complesso periodo successivo, quando l’oramai grande fabbrica di Billancourt è al centro di nuove forme di organizzazione e meccanizzazione, che incontrano l’ostilità degli operai. Simone Weil vorrà sperimentare di persona l’alienazione che si viveva al suo interno, facendosi assumere come operaia per alcuni mesi (ce ne lascerà un vivido ricordo nel suo Diario di fabbrica). Così come immagini indelebili della fabbrica furono scattate da un giovane fotografo destinato a divenire famoso, Robert Doisneau, che lì si fece le ossa con le foto industriali. Ai piani alti, intanto, anche alla Renault si cominciava a pensare a una nuova filosofia di produzione: un’auto di massa, per tutti, a cui già guardavano con spirito molto diverso sia Henry Ford con la sua Modello T, sia Hitler con la sua auto per il popolo, la Volkswagen. Ma la Seconda guerra mondiale fece precipitare tutto, la fabbrica francese fu occupata dai nazisti e utilizzata ai loro fini.
Se ne riparlò in un contesto del tutto diverso, in un periodo postbellico segnato dalla guerra fredda e dal boom economico. È il 1961 quando esce la prima Renault 4, che succede alla superata 4Cv. È una macchina originale per le sue caratteristiche: spartana, robusta, con telaio a pianale e trazione anteriore, un caratteristico lungo muso per il motore, un portabagagli molto spazioso chiuso da un portellone. Faceva concorrenza alla 2Cv dell’odiata Citroën e alle Fiat 500 e 600. Diventò subito un’icona. Era «l’auto in blue jeans», guidata da divi come Catherine Deneuve, Tony Curtis e in seguito Brigitte Bardot (B.B. aveva già reclamizzato il modello sportivo della Renault Floride).
Anche nella politica italiana tutto era cambiato, e nel libro ritroviamo le vicende di protagonisti del dopoguerra e del miracolo economico, come i due ragazzi della Fuci, Giulio Andreotti e Aldo Moro, ritratti nelle loro abitudini personali e nelle loro pianificazioni politiche. Fino allo snodo cruciale rappresentato dai violenti scontri di piazza del 1960, che fotografano un Paese spaccato tra destra e sinistra, e fanno emergere protagonisti come Amintore Fanfani, Fernando Tambroni, Giovanni Gronchi, ma anche Enrico Berlinguer e figure come Pier Paolo Pasolini e Giangiacomo Feltrinelli. La composizione della crisi sposterà l’asse politico verso il centrosinistra e poi verso il Pci. Le storie degli uomini, intrecciate a quelle delle macchine, tornano alla ribalta.
L’ultima sezione del libro è tutta dedicata all’agguato delle Brigate rosse a Moro, maturato nella congiuntura di crisi degli anni Settanta. Seguiamo così da vicino le storie di Renato Curcio, Mario Moretti, Alberto Franceschini, Valerio Morucci, Mara Cagol, Adriana Faranda e vari altri, nella loro progressiva radicalizzazione, nei furti e sequestri, nei contatti con gli estremisti francesi (il contrappunto Francia e Italia è costante), nell’organizzazione delle Brigate rosse. Fino al furto della R4 rosso amaranto, di proprietà dell’asfaltista Filippo Bartoli, una vecchia macchina con quasi 250 mila chilometri, poco appariscente e perfetta per lo scopo. La minuziosa sequenza delle fasi del sequestro e del ritrovamento è raccontata con un ritmo serrato, angosciante, quasi cinematografico. E si ritorna lì, al punto di partenza, al corpo nella R4, dopo avere ripercorso una storia lunga e labirintica, quasi avere ricostruito un puzzle.
È un romanzo che lega alla narrazione una fitta trama di nomi, fatti e misure, con una precisione quasi maniacale per il dettaglio, spesso ricorrendo ai numeri (date, orari, dimensioni, cifre di bilancio) per dare spessore e precisione al racconto. Non per nulla nell’epilogo si elencano le numerose fonti visionate per la raccolta dei materiali. Ne esce un quadro che, al di là dello spunto narrativo, disegna un ampio scenario della società e della cultura di oltre mezzo secolo in Francia e Italia.
Nel finale, l’epilogo racconta della recente chiusura della fabbrica di Billancourt. Fine di un mito? Forse no, se proprio in questi giorni i fotografi e i social sono impazziti per l’immagine di Brigitte Bardot, 89 anni, alla guida della sua amata Renault 4. I miti, persone o macchine, non muoiono mai.