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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Siamo tutti antichi Romani


«Nulla ci appartiene. Solo il tempo è nostro». «Un animo grande non fa il bene e lo vede perduto, ma lo vede perduto e continua a farlo». «La nostra società è simile a una volta di pietre: sarebbe destinata a cadere se i sassi non si reggessero a vicenda».
Che meraviglia. Tre frasi di Seneca, tre in mezzo a centinaia: scritte duemila anni fa ma come fosse ieri o stamattina. Un filosofo, un gigante, arrivato da Cordova, oggi Spagna, però civis romanus come tutti, come il mondo intero, come ogni straniero non da temere ma da sedurre. Con la cultura, la lingua, l’orgoglio, lo slancio, la missione superiore. Anche con il coraggio. Solo un popolo sicuro di sé e del proprio posto nella storia poteva immaginarsi figlio ed erede di un popolo sconfitto. Enea fugge da Troia in fiamme, violata e umiliata, «una salus victis, nullam sperare salutem», «una sola salvezza per i vinti, non sperare salvezza», e dà inizio al lunghissimo viaggio che porterà alla nascita dell’antica Roma. Non importa che arrivi dalla sponda dei vinti. Meglio.
Il valore è fare la cosa giusta, non quella che avrà successo. Come ci ha insegnato (una volta per tutte) il principe troiano Ettore, salutando Andromaca e il bimbo nel sesto libro dell’Iliade. Morirà, ma è il suo dovere. Una cosa che si chiama responsabilità, se il termine ha ancora un significato. «Terribilmente mi vergognerei di fronte ai troiani e alle troiane dai lunghi pepli, se come un vile mi tenessi lontano dalla battaglia. Non a questo mi spinge il cuore». Tra i discorsi più belli dell’umanità, anche se è un’invenzione poetica. Forse per questo. Ettore perde il duello con Achille e il sangue si mischia alla polvere, ma diventa nostro fratello, per sempre.
E i Romani con la storia in pugno e il trionfo sugli scudi decidono di farsi discendenti degli sconfitti. Perché sconfitti con onore. Virgilio nell’Eneide inventa un eroe tormentato, quasi riluttante, che fa la guerra perché vuole la pace, e così regala ai dominatori di tutte le terre una storia, un passato. Un’anima. Ecco. L’Urbe attraversa lo spazio e il tempo per gli eserciti, va bene, ma ancor più per il pensiero, la cultura, la visione, le leggi, l’idea di sé. Che è il senso, esattamente il senso, del libro di Aldo Cazzullo Quando eravamo i padroni del mondo (HarperCollins). Sottotitolo, Roma: l’impero infinito. Un saggio che diventa racconto, un racconto che si fa romanzo storico. Un testo che attraversa le epoche e alla fine parla all’anno 2023. Si impara, si ricorda, si pensa: un lavoro da fuoriclasse. E poi il dibattito se serva o non serva conoscere gli antichi è una solenne scempiaggine: come chiedersi se ha senso vivere e capire noi stessi, se ha senso aggiungere gioia e piacere all’esistenza. Il compianto Nuccio Ordine, con il libro L’utilità dell’inutile, l’aveva spiegato in modo definitivo, come si dice adesso.
«Un’eredità di parole più che di armi», l’idea guida di Cazzullo. Un popolo guerriero che allo stesso tempo, con Terenzio, seppe scrivere «homo sum, humani nihil a me alienum puto», sono un uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo: come dire il sale della nostra civiltà. «Roma non è mai caduta. Almeno nella versione idealizzata da scrittori, artisti, poeti, è il più alto dei nostri pensieri». Il punto non è l’attualità. Ma piuttosto una fine che non c’è mai stata. Una presenza continua nella lingua, nelle istituzioni, nel diritto, nella capacità (o meno) di conquistare i cuori e non solo i territori. Un senso di angoscia, così moderno, anche nell’ora del trionfo. Polibio racconta di Scipione Emiliano che distrugge Cartagine e poi piange sulle sue macerie perché cita l’Iliade (siamo nati per citare l’Iliade) e pensa alla futura rovina di Roma. L’imperatore Adriano, nella rilettura (strepitosa) di Marguerite Yourcenar, gira il mondo, «si costruisce ogni giorno» ma più è potente e più vede il baratro.
Il paradosso
Un popolo di dominatori si immaginò discendente di un eroe come Enea, sconfitto e fuggiasco
«Nessuna speranza senza disperazione, nessuna disperazione senza speranza», scrive Seneca, sempre lui. È la Roma antica più nobile e alta. Che è grande e non si ubriaca di grandezza. Tanto che uno storico latino, Tacito, dà voce a un «barbaro», Calgaco, e gli fa pronunciare la frase anti-imperialista più famosa della storia: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant». Dove fanno il deserto, lo chiamano pace. Lo scrittore, statista, immenso condottiero Giulio Cesare è anche lo sterminatore dei Galli. Le milizie romane che portano il diritto e il progresso ai confini della Terra sono le stesse che nel 70 dopo Cristo abbattono il tempio di Gerusalemme e impongono la diaspora al popolo ebraico. Ne vediamo le ferite ancora oggi.
Enea ha la guerra negli occhi ma è figlio di Venere, dell’Amore. Se Ulisse viaggia verso Itaca, che è il passato, l’eroe troiano viaggia verso il futuro, che non conosce. La missione di Ulisse, in fondo, è sé stesso. La missione di Enea è aprire una breccia nel tempo, accendere la fiaccola della città eterna, incanalare la storia verso l’epoca di Augusto, alla confluenza perfetta della potenza, delle arti, delle leggi. È Roma a costruire il mito di Roma. E il racconto di Cazzullo si fa seguire sempre, in ogni pagina. Dai gemelli allattati dalla lupa fino al «veni vidi vici» di Cesare, dalla rivolta di Spartaco che muore crocifisso fino al suicidio di Catone che affascina pure Dante Alighieri («libertà va cercando…»), dall’enigma di Cleopatra fino al sogno cristiano di Costantino.
Ma Roma rinasce ogni volta. A Bisanzio, che esiste ancora per secoli. Nella corona di Carlo Magno come in quella di Napoleone. Con l’impero britannico, che arriva a possedere un quarto del mondo e si percepisce come il degno successore. A Mosca che si sente addirittura «la terza Roma». Nelle manie di grandezza di Mussolini, dove diventa imitazione e parodia. Fino all’epoca degli Stati Uniti, che si raffigurano (ancora) come la potenza più grande della storia e si paragonano inevitabilmente alla città di Cesare. Diciamo, dicevamo, pax americana perché il riferimento è la pax romana, in un’accezione più ambigua che positiva. Quando John Kennedy nel ’63 parla di fronte al Muro, parte dalla frase civis romanus sum per arrivare all’invenzione geniale «io sono un berlinese». Un respiro universale, al di là di popoli, origini, religioni. L’Urbe dominava il mondo perché non ne aveva paura: lo straniero non poteva che essere o diventare romano. Il progenitore Enea era tecnicamente un profugo.
Roma vive, il fascino resiste, «il potere sulle anime» è l’ambizione di ogni tempo. E vale anche per i profeti della nuova era. Cazzullo lo racconta e ironizza (fa bene). Mark Zuckerberg si sente Augusto rinato, con miliardi di persone nel suo pianeta parallelo, mentre Elon Musk si è subito proclamato imperatore di Marte. Volevano anche sfidarsi al Colosseo ma per fortuna era uno scherzo. Con due guerre alle porte, dentro le porte, tra i carrarmati russi e le stragi di Hamas, l’Occidente (presunto) erede dell’antica Roma ha smarrito l’idea di pax e molta fiducia in sé stesso. Più che gli storici di Augusto e dell’età dell’oro, ci tocca rileggere le pagine sul declino e la caduta dell’impero. Per Cicerone può servire, perché «la storia è maestra di vita». Per Eugenio Montale non porterà a nulla, perché «la storia non è magistra di niente che ci riguardi». In questi giorni, e speriamo passi, si intravede l’ombra di Scipione Emiliano a Cartagine: ripensiamo al passato, guardiamo le rovine del presente, piangiamo già per il futuro.