Corriere della Sera, 21 ottobre 2023
Intervista a Giovanni Malagò
Giovanni Malagò, quanti numeri ha in agenda?
«Non li ho mai contati, sul cellulare saranno un migliaio. Ma la mia segreteria, che è molto ben organizzata, ne ha rubricati decine di migliaia».
Quanto contano le pubbliche relazioni?
«Molto, se rivesti un ruolo in cui le relazioni ti aiutano ad esercitarlo al meglio. Alzare il telefono ed evitare tutta una serie di perdite di tempo è un vantaggio».
Partiamo dall’inizio. Che educazione ha avuto?
«Molto tradizionale, classica, per certi versi borghese».
Libri sotto le ascelle?
«Mia madre mi rimproverava perché non ero composto a tavola. Una cosa che mi è rimasta è finire quel che c’è nel piatto: quando avanza un panino lo porto a casa».
Suo padre Vincenzo.
«Ricordo quando siamo andati a comperare il primo motorino, un Moto Morini Corsarino ZZ. Lo pagò 125 mila lire e disse: “Non voglio venire a sapere che a scuola vai male”. Il sottotitolo era: “Non tradire la mia fiducia"».
Lo ha deluso?
«Non credo, anzi. Sono rimasto dalla prima elementare alla maturità al San Giuseppe De Merode. Non mi sono mai alzato da letto dopo di lui».
Lavoravate insieme.
«Mi diceva: “Usa la tua intelligenza insieme alla mia esperienza"».
Un suo consiglio.
«Non rinviare mai. La sera vedeva la lista di chi mi aveva cercato e mi ripeteva: “Richiamali, possono essere rompicoglioni ma anche clienti..."»
La Samocar vendeva così tante auto che la casa madre ha rilevato un ramo...
«Il primo anno abbiamo venduto 17 Bmw, prima di essere rilevati più di 8 mila. Più di Tokyo e New York».
Work hard, play hard: lavoro e tanto divertimento.
«Non lo rinnego. Ma ad un certo punto il senso di responsabilità è diventato inconciliabile con un certo tipo di vita. Una volta ero fisso al ristorante, oggi sto a casa, con i cani, un buon vino italiano e il mio sigaro. Chi è sempre in giro per lavoro il jolly lo spara diversamente...».
Si sente un playboy?
«So di non essere credibile, ma è stato tutto amplificato».
La scena di Yuppies in cui un piacione arriva al Jackie ’O, lancia la chiave dell’auto al finto parcheggiatore e quello scappa... era lei?
«Innanzitutto era il Number One. E diedi la chiave a un vero parcheggiatore, al quale rubarono la mia auto».
Una follia fatta per amore?
«Preparavo la maturità e Polissena, la mia ex moglie, aveva casa all’Argentario. La sera, dopo lo studio, partivo da Roma senza casco con una Honda 125, per stare con lei. La mattina tornavo indietro, sempre senza casco».
Che marito è stato?
«Non da encomio».
Che papà?
«Il legame con Ludovica e Vittoria è solido: le vedo con i piedi per terra, ottime madri, impegnate nel lavoro, penso di aver trasmesso dei valori».
Lucrezia Lante della Rovere, madre delle sue gemelle.
«Una mattina, alla solita chiamata dell’Avvocato all’alba, rispose lei al telefono: “Giovanni non ha il coraggio di dirvelo, a quest’ora non dovete chiamare più!”. Glielo riferirono e quando ci vedemmo a cena disse a Lucrezia, con la sua erre: “Che caratterino, fumantino!"».
Le chiamate all’alba di Agnelli erano dunque vere?
«Certo e siccome ero amico di Spiro, il centralinista romano, gli avevo chiesto di mettermi in fondo alla lista: guadagnavo mezz’ora di sonno».
Ha rapporti con le ex?
«Per loro ci sono e ci sarò sempre».
I suoi amici: Gianni Letta.
«Conosce tutti, è amico di tutti, ma penso che con me abbia un rapporto diverso. Mi onora di cenare a casa mia, so quello che gli piace mangiare e chi ama incontrare».
Montezemolo.
«L’amico di una vita: ci siamo conosciuti 50 anni fa e continuiamo a farci gli scherzi e a stare reciprocamente al gioco...».
Tre imprenditori con i quali le piace confrontarsi.
«Giorgio Armani, Franco Caltagirone e Fabrizio Di Amato».
Da presidente onorario dell’Aniene si sente l’inventore del «circolo»?
«No, ma penso che non esista un posto al mondo con la stessa qualità del corpo sociale e una storia sportiva così prestigiosa. Per entrare c’è una lista d’attesa di 2 anni».
Si sente un Re Mida?
«Non penso, ma gestisco tutto come un’azienda. Condivido le parole di Bruno Zago sul Corriere Economia: contro la crisi c’è solo una ricetta, investire».
Le Olimpiadi di Roma.
«Un’occasione mancata, lo dico da romano e da italiano. Quando per autolesionismo c’è stata la ritirata di Roma, ho pensato di cavalcare l’onda di Milano, post Expo, e Luca Zaia è stato bravo a saltarci su con Cortina».
Però c’è stato il successo della Ryder Cup.
«Il campo da golf Marco Simone di Lavinia Biagiotti permetteva di gestire 60 mila persone e poi da una buca si vede la cupola di San Pietro. Ma Roma non era scontata: andava preparata la candidatura e vinta la concorrenza».
Come l’ha spuntata?
«Torniamo alle relazioni. Sono molto legato a Franco Chimenti, mio primo sostenitore al Coni. Durante un convegno sullo sport in Vaticano, cominciò a telefonarmi con insistenza, ma ero impossibilitato a rispondere e incastrato tra le sedie: “È urgente”. Voleva dirmi che lì c’era un personaggio decisivo per l’assegnazione, era Keith Pelley. E dove ero seduto io? Tra Montezemolo e Pelley».
Come è fare il Presidente del Coni?
«Un ruolo che svolgo con passione e da volontario. La mia vita pubblica è senza rimborsi. Questo è un Paese particolare, puoi trovarti in difficoltà per un pranzo...».
Le piacerebbe amministrare Roma?
«Sì perché soffro troppo a vedere certe cose. No perché dovrei fare compromessi».
Vincerebbe a mani basse?
«Sarebbe inelegante dirlo, ma i sondaggi registravano un certo gradimento. Ad eccezione dei 5 Stelle ho ricevuto offerte da tutti i partiti».
Giorgia Meloni.
«La stimo molto e spero che rimanga la persona coerente che conosco».
Gioco della torre: Sabaudia o Cortina?
«Amo Cortina, ma vince il mare».
Spezzato o completo?
«Spezzato tutta la vita, sono un uomo da blazer. E in inverno il doppiopetto Caraceni».
Quante Ferrari possiede?
«Solo una che ho ricomperato dopo 30 anni: una Ferrari 612 Scaglietti blu. Mi ricorda un pezzo del passato con le mie figlie e l’ho ritrovata».
C’è chi la chiama Megalò.
«Lo inventò Suni Agnelli, sono molto amico nonché socio di suo figlio Lupo. Dagospia l’ha ripreso, all’inizio ero dispiaciuto, ma se penso ai nomignoli degli altri mi è andata fin troppo bene».