Corriere della Sera, 21 ottobre 2023
Ritratto di Abu Mazen
Gerusalemme Le ciabatte rosa appaiate sotto il letto, le foto del presidente appese alle pareti e quelle della moglie sul comodino (coperte dai fondamentalisti per non sbirciare i capelli di una donna senza velo), in soggiorno il tapis roulant pronto a essere rimesso in moto per irrobustire il cuore malato. Ai paramilitari di Hamas vincitori trionfanti e visitatori intimoriti del palazzotto rosa sulla strada verso il mare sembrava che gli inquilini se ne fossero andati da poco e tra poco dovessero riaprire la porta. Invece da quando è stato eletto presidente diciotto anni fa, il risultato che gli viene comunicato dai consiglieri proprio mentre soggiorna nella Striscia, Abu Mazen a Gaza non è mai tornato. Neppure quando sarebbe stato possibile, quando il corridoio di sabbia era ancora sotto il suo controllo, prima che gli islamisti ne prendessero il dominio con le armi nel giugno del 2007.
Il successore di Yasser Arafat governa su una metà sola di quel futuro Stato che aveva contribuito a delineare nel 1993 sulla carta degli accordi di Oslo. Lascia poco il palazzo della Muqata – a Ramallah, con vista sul mausoleo che celebra il leader dalla keffiah bianca e nera – e se lo fa è per essere fotografato mentre incontra all’estero i dignitari internazionali o nei filmati diffusi periodicamente per dimostrare che non è morto. Tipo prigioniero con il quotidiano del giorno. «Una prova in vita necessaria in cui sembra essere sia sequestrato che sequestratore» ha scritto il settimanale britannico Economist. Una prova in vita a sconfessare le voci messe in giro dagli avversari interni, sussurri menagramo rinforzati dalla salute sempre sotto stress di fumatore incallito a 88 anni – li compie il 15 novembre – con problemi cardiaci, già operato per un cancro alla prostata. La lotta per la successione è aperta da anni, tra vecchia e nuova guardia, tra duri come Jibril Rajoub e suoi fedelissimi come Majed Faraj: qualche mese fa il presidente ne ha prolungato a perpetuità l’incarico di capo dei servizi segreti.
Nato a Safed nella Palestina del mandato britannico, abbandonata la casa nel 1948 in quella che i palestinesi chiamano la Nakba, la catastrofe, la nascita dello Stato di Israele, con la famiglia ha girato il Medio Oriente. Prendendo la laurea in Legge al Cairo più un dottorato nella Mosca sovietica concluso con la tesi per cui è stato accusato di negare la Shoah e al quotidiano israeliano Haaretz ha dovuto replicare: «L’Olocausto è stato un crimine contro gli ebrei e contro l’umanità che non può essere accettato dagli esseri umani».
Frattura ideologica
Le garanzie di stabilità che ha offerto agli occidentali ne hanno puntellato la posizione
Nel 2005 i palestinesi avrebbero forse preferito come condottiero Marwan Barghouti (condannato per terrorismo dagli israeliani a cinque ergastoli, gli arabi lo considerano il loro Nelson Mandela) a quel funzionario che aveva seguito Arafat nei vari esili – Libano, Giordania, Tunisia – fino al ritorno nei territori, fedele al capo popolo che non aveva mai saputo diventare capo di governo. Mahmoud Abbas – Abu Mazen è il nome di battaglia – ci ha provato proclamando di opporsi alla resistenza armata, perseguendo iniziative diplomatiche che hanno portato al riconoscimento della Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite.
Benjanim Netanyahu, il primo ministro israeliano, ha preferito che i palestinesi rimanessero divisi, ha pensato di poter addomesticare Hamas con i milioni di dollari in contanti portati a Gaza dentro le valigie dall’ambasciatore qatarino, nel 2014 ha congelato (ormai ibernato) i negoziati per la nascita di un futuro Stato: nell’intesa firmata a Oslo, l’Autorità avrebbe dovuto gestire il periodo di transizione verso l’autonomia totale, invece la Cisgiordania resta divisa in tre zone a seconda che siano sotto il controllo pieno dei palestinesi o quella in cui gli israeliani esercitano il potere amministrativo-militare, è l’Area C e rappresenta il 60 per cento dei territori occupati.
Da guida politica si è trasformato in autocrate: ha cancellato ancora una volta le elezioni parlamentari nell’aprile del 2021, perché si è reso conto che il suo Fatah avrebbe perso. La sua presenza alla Muqata non è mai stata messa in discussione ufficialmente, anche se il mandato sarebbe dovuto durare solo quattro anni. La frattura ideologica e territoriale con i fondamentalisti, le garanzie di stabilità che ha offerto fino ad ora agli israeliani e agli occidentali l’hanno puntellato alla sua poltrona, sempre meno amato dai palestinesi. Che lo hanno accusato – gli oppositori zittiti anche con le torture – di aver permesso ai corrotti di diventare milionari, compresi i due figli Tareq e Yasser, con interessi dappertutto, dalla coltivazione del tabacco alla pubblicità. E che in questi giorni marciano in strada riesumando slogan della cosiddetta «primavera araba», da queste parti rivolte non ci sono state, per la rabbia basta il nemico israeliano.