La Stampa, 21 ottobre 2023
Intervista a Bret Easton Ellis
Droga e Xanax, sesso estremo, nel walkman Blondie, al cinema Shining. Adolescenti sopra le righe (di coca), in Porsche e occhiali Wayfarer, sballati, dannati, plastificati, belli da morire (letteralmente), nella loro assolata esistenza formato Barbieland, verso la quale si prova – con la stessa intensità – invidia e pena. Cantami, o Bret Easton Ellis, l’ossessione-perversione funesta che infiniti lutti addusse ai ragazzi della fighettissima Buckley School nella California di inizio Anni 80. Con Le Schegge (Einaudi), lo scrittore di Meno di Zero e American Psycho, torna al romanzo dopo 13 anni. Lo presenta oggi alle 18 al Circolo dei lettori di Torino, ospite del nuovo festival letterario Radici, diretto da Giuseppe Culicchia, che di Ellis è il magistrale traduttore. L’ex enfant prodige della letteratura americana ora ha 59 anni, felpa nera, sgranocchia taralli (anche lui!), beve acqua gasata e si racconta a La Stampa con generosa e teatrale impudenza.Quale personaggio ha bussato alla sua porta (creativa) per farle scrivere Le Schegge?«Matt Kellner. Il nome è fiction ma nella realtà è stato il primo ragazzo con cui ho fatto sesso. Durante il lockdown ho ripensato ai momenti di gioiosa gioventù, vissuti insieme a 16 anni. E sono tornato a chiedermi che fine avesse fatto».Non lo sa?«No, è un mistero. Nel 1981, l’anno in cui è ambientato il romanzo e frequentavamo la Buckley, lui sparì. Un giorno non venne più a scuola e da allora non ne ho mai più saputo nulla. Per questo già nel 1982 iniziai a imbastire Le Schegge».Cosa direbbe oggi al Bret adolescente?«L’importante è vivere, anche il dolore, l’imbarazzo, inciampare, imparare dagli errori per diventare più empatici. L’unica cosa che gli direi, citando Gore Vidal, è: “Fai più sesso e appari di più in televisione"».Lo ammetta: con l’autofiction, tra realtà e invenzione, si diverte a insinuarci il dubbio (sarà tutto vero? ) …«Non scrivo per i lettori né per l’editore, ma per me. È una benedizione, mi viene facile. Mai avuto il blocco dello scrittore. Però, ciò che mi porta a una tale felicità è sempre il dolore. Scrivo perché ho una questione da risolvere, un amore non ricambiato, un problema con mio padre oppure l’io adulto che guarda indietro e vede quanto era incasinato il Bret sedicenne. E quando lo faccio, arriva il sollievo».Nel libro è anche splatter. Spietato ed estremo. Cosa la spaventa ancora?«Da ragazzo i film horror. Crescendo, mi sono accorto che la vera paura ha a che fare con la realtà, non con qualcosa di immaginario. Ho avuto paura della celebrità: il primo grande successo, con Meno di zero, è stato fantastico, ero un golden boy, dopo due anni la gente ha cominciato a prendermi in giro, parlare male di me, e ho pensato che il mondo mi vedesse davvero così. Ora temo il cancro, di non avere abbastanza soldi, di perdere mia madre o il mio compagno, ad agosto è morta mia sorella in un incidente ed è stato uno choc. E mi fa paura il contesto in cui viviamo, sempre più “fake"».Tuteliamo le minoranze e la libertà, al tempo stesso il “politicamente corretto” a tratti sfocia in una censura castrante per la stessa libertà (vedi il sensitivity reader nella narrativa): come vive questa contraddizione?«Malissimo. Non siamo affatto liberi, c’è confusione su questo. Giorni fa studenti Lgbtq+ sventolando la bandiera della Palestina dicevano: “Siamo a favore di voi fratelli musulmani”. Quando hanno capito che in quei Paesi gli omosessuali sono puniti con 30 anni di prigione, allora hanno corretto il tiro: “Ah ok, ora sappiamo come stanno le cose, ma siamo ancora con voi"».Giusto o sbagliato annullare il premio alla scrittrice palestinese Adania Shibli, alla Fiera del libro di Francoforte?«Assurdo. Detesto l’atteggiamento di chi si sente in diritto di decidere chi può parlare e chi no, chi ha ragione e chi torto».Lei è stato considerato a lungo lo scrittore più scomodo d’America. Ci vuole coraggio ad esprimere un’opinione?«Oggi è più difficile essere persone di buon senso, c’è la tendenza a vedere tutto bianco o nero, si zittiscono sfumature e contraddizioni. Ed è sempre peggio».Perché?«Parte del problema è causato da alcune esagerazioni, dal comportamento delle case farmaceutiche, ad esempio, ma anche dalla corruzione all’interno del Black lives matter. Nel MeToo si è scoperto che molte accuse erano infondate o create apposta per cavalcare l’onda, e questo ha vanificato il reale spirito femminista del movimento. Penso a Armie Hammer o Kevin Spacey, risultati poi innocenti. È un’epoca di isteria moralizzatrice».Come ne usciamo?«Quello che conta è restare sé stessi».Lei ci riesce?«Per me è più facile: non sono sposato, non ho figli, per chi ha una famiglia da mantenere è più complicato non badare alle conseguenze di aver detto qualcosa fuori dal coro».Chi sono i più “moralizzatori”?«È un’attitudine più tipica della sinistra, preoccupata di dover essere politicamente e moralmente corretta: chi si discosta rischia di essere emarginato. Conosco molti liberali di alta caratura intellettuale che sono stati messi da parte per essersi espressi, da un punto di vista biologico, sui transgender. Io stesso ero un liberale, nella New York degli Anni 80, ero schierato, ma poi a causa di certe mie opinioni mi sono trovato spostato dove non avrei mai pensato di essere collocato».Nel 2016 bacchettò gli anti-Trump («È stato eletto, fatevene una ragione. Basta piagnucolare»): oggi teme o prevede il suo ritorno?«Sono la persona sbagliata per parlare di politica, secondo me viviamo in una Repubblica delle Banane, non credo più in questo sistema dove c’è connivenza tra media, governo, major dei farmaci, che controllano anche le elezioni. Me ne tengo fuori. Vincerà di nuovo Trump? Non lo so. Anni fa mi sono trovato a una cena di milionari, a un certo punto qualcuno ha chiesto: chi di voi pensa che le elezioni siano state rubate? In 13 hanno alzato la mano e l’ho alzata pure io perché avevo paura di essere buttato fuori».Ha definito i Millennial la «generazione degli inetti». Sono maturati?«Oggi ho tanti amici ventenni, la Gen Z. E noto che anche loro hanno in antipatia i ragazzi della generazione precedente: pensano che siano tutti piagnoni, eccessivamente sensibili, li ritengono – attenzione perché dirò una parola assolutamente scorretta – un gruppo di ritardati».Almeno la Gen Z le dà speranza?«Nessuno mi dà speranza, ma mi rincuora la loro critica verso i lamentosi Millennial».Gli Anni 80 stanno tornando. Lei ne è il cantore: cosa avevano di speciale?«La musica: era migliore. Ma soprattutto la libertà. Nessuno è mai stato più così libero. Noi potevamo offendere e sentirci offesi, non eravamo schiavi di un’ideologia. Oggi i ragazzi se dicono qualcosa di sconveniente vengono allontanati dalla scuola e il tasso di suicidi è schizzato: all’epoca non ho mai sentito di ragazzi medicalizzati per disturbi psichici e non c’erano sparatorie».La (vostra) Generazione X ha poi virato su posizioni più conservatrici…«Vero, proprio perché ci siamo goduti quella libertà, linguistica, culturale, che poi ci è stata portata via, alimentando il risentimento. Ormai si cammina sulle uova, bisogna stare attenti a mandare un messaggio a una ragazza con la quale vorresti uscire perché potrebbe interpretarlo come una molestia sessuale».Nessuna ombra in quel periodo?«Certo, c’erano superficialità, materialismo e la piaga dell’Aids».Ha mai pensato di ritirarsi dalla vita pubblica?«No, perché non ne ho mai fatto parte. Sono uno scrittore, diventato portavoce di opinioni, mio malgrado. Quando in passato ho scritto di politica, in Bianco ad esempio, l’ho fatto sempre come reazione al nuovo puritanesimo».Ha definito David Foster Wallace «lo scrittore più sopravvalutato di sempre». Ci dica quello più sottovalutato.«Bruce Wagner, scrive romanzi comici su Hollywood, tra celebrity, illusioni, bizzarrie. L’America lo ignora. In Italia non lo pubblica nessuno».Finiamo con Le Schegge: diventerà una serie tv (in corso la trattativa con il regista Luca Guadagnino). Chi vede bene nei panni del Bret Easton Ellis ragazzo?«Non penso mai a un attore per i miei personaggi, nemmeno al loro volto mentre scrivo. Per American Psycho non sapevo che faccia avesse Patrick Bateman. Oggi so che ha il volto di Christian Bale, anche per me». —