La Lettura, 21 ottobre 2023
Il ragazzino vicino di casa di Hitler
Ho conosciuto Edgar Feuchtwanger nel 1986, quando era un professore di Storia britannica all’Università di Southampton. Solo anni dopo mi ha raccontato della straordinaria esperienza vissuta da bambino. Dal 1929 al 1939 Feuchtwanger non solo è stato, a Monaco, vicino di casa di Hitler, ma ha avuto modo di incrociare la sua ingombrante presenza in diverse occasioni. Non è stato facile per lo storico inglese, adulto, reincontrarsi con il bambino ebreo tedesco che aveva vissuto un’infanzia frastornata nell’angoscia crescente di chi, in famiglia, percepiva i timori – in particolare quelli del padre, importante editore negli anni della Repubblica di Weimar – per l’ascesa del nazismo.
Dopo avere a lungo evitato di affrontare l’argomento, senza per questo volerlo mai nascondere, Feuchtwanger ha deciso di raccontare la sua straordinaria esperienza che è poi diventata un bestseller, Hitler, il mio vicino (Rizzoli). Recentemente lo ha fatto per il pubblico italiano al Festival della Storia di Ancona, dove ha ricordato come «continua a esercitare uno strano fascino il fatto di poter incontrare in me qualcuno che ha visto davvero Hitler molte volte e in molte circostanze, importanti e non importanti, qualcuno che è sopravvissuto a dispetto di ogni previsione». Abbiamo dunque di fronte l’ultimo testimone oculare di momenti storici collegati all’ascesa e al consolidamento del regime nazista: il plebiscito con lista unica dopo il decreto per i pieni poteri a Hitler nel novembre 1933; la Notte dei lunghi coltelli con cui furono liquidate le indocili squadre delle Sa nel giugno 1934; l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, nel marzo 1938. Uno di quei passaggi, la Notte dei cristalli contro gli ebrei del novembre 1938, finì per coinvolgerlo in modo drammaticamente diretto.
Non si può però nascondere che la testimonianza di Feuchtwanger colpisce anche perché fa emergere una quotidianità che nessun libro di storia ci potrà mai restituire. Immagini, suoni, persino i pettegolezzi di quartiere sull’entourage di Hitler, a cominciare da Eva Braun, si sono impressi nella memoria del bambino ebreo e oggi ci restituiscono frammenti di un mondo, quello dell’appartamento e del quartiere di Hitler a Monaco, che appare l’occhio del ciclone dell’impero del male.
Che cosa ha significato per lei, bambino ebreo, essere vicino di casa di Hitler?
«Nel 1929 avevo appena cinque anni: sono nato alla fine di settembre del 1924. Quando lasciai la Germania, nel febbraio del 1939, avevo quattordici anni. Dove vivevo con i miei genitori in quegli anni, abitava già, da prima della Grande guerra, mia nonna materna. Hitler si trasferì in quel quartiere nel 1929, quando il suo partito era in ascesa. In precedenza, aveva vissuto in un ambiente meno salubre nel centro di Monaco. Nelle interminabili campagne elettorali del 1932, quando si votò una volta per le presidenziali e due volte per il Parlamento, i socialdemocratici affissero un manifesto che diceva: “Hitler si dichiara amico degli operai ma abita in un appartamento di nove stanze a Monaco”».
Quando seppe della presenza del futuro dittatore?
«Ricordo che udii per la prima volta il suo nome quando mia madre disse: “Non abbiamo molto latte oggi. Il lattaio ha detto che doveva lasciare bottiglie extra nell’appartamento di Hitler”. La situazione era resa pericolosa da mio zio Lion, scrittore, fratello maggiore di mio padre. Lion era una celebrità internazionale grazie al libro Süss l’ebreo, un bestseller mondiale. Alla fine degli anni Venti iniziò a lavorare a un altro romanzo, Successo, che parlava di Monaco e della Baviera al tempo del fallito Putsch della Birreria nel novembre 1923».
Le capitò di incrociare Hitler: come viveva quell’esperienza?
«La prima volta che ricordo davvero di aver visto Hitler fu probabilmente subito dopo che era diventato cancelliere nel 1933. La mia tata mi aveva portato a fare una passeggiata. Proprio mentre superavamo l’isolato, Hitler uscì dalla porta per salire in macchina. Mi guardò con una certa benevolenza. C’erano in giro alcune persone che gridavano “Heil Hitler” e facevano il saluto. Hitler sollevò leggermente il cappello trilby e salì in auto. Più tardi il suo andirivieni diventò impressionante. Si capiva che era in casa dalla presenza delle tre Mercedes nere, che si vedono in molti cinegiornali, parcheggiate accanto al marciapiede davanti al suo isolato da cui non si poteva più passare. Bisognava spostarsi sul lato opposto della strada. All’improvviso uscivano gli autisti che accendevano i motori e poi le guardie del corpo in divisa nera che prendevano posto nelle auto. Le stanze al piano terra erano state occupate da queste guardie del corpo delle Ss. Alla fine scendeva il Führer in persona che prendeva posto accanto al conducente della prima vettura e poi il corteo partiva ruggendo».
Un bambino riusciva ad avvertire il nuovo clima politico in Germania?
«Nella mia routine quotidiana, andando alle elementari, venni subito completamente esposto all’ormai prevalente vento nazista. La nostra insegnante era una signora, forse sui trentacinque anni, Fräulein Weikl, euforica, come molti, per quello che stava accadendo. Ci dettava la storia di come la Germania aveva combattuto eroicamente e non era mai stata sconfitta, ma era stata tradita. Ora però stava andando verso un nuovo grande futuro, il sole che sorgeva con una svastica sopra. Fräulein Weikl era un’insegnante piuttosto carismatica e ciò che diceva era importante per noi, suoi alunni. Forse vi chiederete come io, da bambino ebreo e per di più un Feuchtwanger, ho potuto accettare tutto questo. Quando avvengono le grandi rivoluzioni, e quello che stava accadendo era forse il più grande sconvolgimento del XX secolo, nulla procede in modo molto logico o coerente. Da allievo diligente volevo l’approvazione della mia maestra, anche se già all’età di otto anni sapevo fin troppo bene che per noi, per me e per la mia famiglia, il tutto si stava rivelando un pessimo affare».
Le capitava spesso di incrociare Hitler?
«Mentre andavo a scuola mi trovavo nel bel mezzo del ristretto gruppo degli intimi di Hitler, più di quanto io o chiunque altro potessimo immaginare. La scuola era a circa mezz’ora di cammino e dovevo passare davanti alla villa di Heinrich Hoffmann, il fotografo di Hitler, il datore di lavoro di Eva Braun, amante del Führer. I genitori di un mio compagno di scuola avevano la villa accanto a quella di Hoffmann e attraverso la recinzione a volte ho visto Hitler addormentato su una sedia a sdraio in giardino».
Anche Eva Braun viveva vicino a casa sua.
«Di Eva Braun non si sapeva nulla, tranne che in una villa due strade più lontano abitava una giovane impiegata di Hoffmann. Si trovava accanto a un altro Feuchtwanger, zio Theodor. Dubito che Theodor e la sua famiglia fossero molto preoccupati per la giovane che viveva lì accanto, ma la cameriera lo era. Le cameriere e le tate erano brave ragazze cattoliche della campagna bavarese, venute in città per lavorare. Alla cameriera di Theodor non piaceva che Eva Braun prendesse il sole nuda sul tetto; ci furono anche battibecchi a causa dei loro cani».
Che cosa ha visto e sentito durante la Notte dei lunghi coltelli?
«Ernst Röhm, il capo delle Sturmabteilung, le Sa, abitava non molto lontano da noi, in una bella villa, di fronte al Prinzregententheater. Nel 1933 Röhm era considerato la seconda carica del Reich. L’ho visto il 12 novembre 1933, il giorno in cui si tenne il primo plebiscito con cui Hitler legittimava il suo regime. Stavo passando, con la mia tata, davanti a un cinema locale trasformato in seggio elettorale. Fuori c’era un fotoreporter e quindi ci siamo fermati per vedere che cosa stava succedendo. Röhm stava uscendo con la madre al braccio».
Non poteva immaginare di avere i giorni contati...
«Solo sette mesi dopo, il 30 giugno 1934, Hitler lo fece uccidere nella Notte dei lunghi coltelli. Un giorno che ricordo bene. Era sabato. Venni svegliato dai rumori in strada. Guardai dalla finestra. Il rumore proveniva dalla casa di Hitler dove gli uomini correvano avanti e indietro, sbattendo le portiere delle auto e facendo risuonare gli stivali sul marciapiede. Probabilmente era il momento in cui si stava radunando il corteo per portare Hitler a Tegernsee, dove avrebbe chiesto a Röhm di riunirsi con i massimi dirigenti delle Sa all’Hotel Hanselbauer. Presumibilmente li trovò tutti a letto con dei gigolò. Li fece arrestare, riportare a Monaco e fucilare. Solo a Röhm venne data la possibilità di spararsi, cosa che rifiutò. Hitler fu il grande vincitore della Notte dei lunghi coltelli. Le persone comuni pensarono che si fosse sbarazzato dei piantagrane. Quando il presidente della Repubblica Paul von Hindenburg morì, cinque settimane dopo, Hitler divenne capo di Stato con il titolo di Führer e cancelliere del Reich. Le forze armate gli prestarono giuramento personale».
E gli eventi successivi?
«Nel marzo 1938 ci fu l’Anschluss. Svegliandomi un sabato mattina, era il 12 marzo, vidi, insolitamente, un gruppo di veicoli grigi a sei ruote parcheggiati nella piazza. Sono gli stessi che si vedono nei cinegiornali dell’ingresso di Hitler a Vienna. Non vidi Hitler andarsene, ma quattro giorni dopo, mercoledì 16 marzo, lo vidi ritornare trionfante. Furono affissi manifesti che dicevano che il Führer sarebbe arrivato alla stazione ferroviaria descrivendo il percorso per tornare al suo appartamento. Era la prima volta che la sua abitazione veniva menzionata pubblicamente. Ora si chiamava Führerwohnung. La folla nella strada sotto casa nostra era piuttosto scarsa. Hitler era come lo si vede spesso, in piedi sulla macchina, aggrappato al parabrezza con la mano sinistra. Salutava con il braccio destro. Accadde tutto molto velocemente, l’auto si fermò davanti a casa sua, lui entrò, la folla si disperse».
Ricorda qualcosa del patto di Monaco, che di fatto consegnò la Cecoslovacchia ai nazisti?
«La crisi dei Sudeti fu il grande evento successivo, culminato con la conferenza di Monaco della fine di settembre del 1938. C’era una gran folla nella strada sotto casa e io scesi per cercare di vedere qualcosa. Le macchine andavano e venivano davanti all’abitazione di Hitler. Tra la folla correva voce che ci fossero Hermann Göring e Benito Mussolini, ma non si riusciva a vedere niente. La mattina seguente, penso fosse il 29 settembre, il premier inglese Neville Chamberlain venne all’appartamento di Hitler, ma non lo vidi. Qualcosa di tutto ciò si vede nel film francese Hitler, mon voisin (Pbs: Hitler, My Neighbor, 2013) che è stato girato su di me. Ora vorrei attirare la vostra attenzione, in particolare, sulla breve ripresa in cui Hitler saluta il primo ministro britannico. Chamberlain considerò un segno favorevole il fatto che fosse stato invitato nell’appartamento privato di Hitler».
Poi per gli ebrei la situazione divenne disperata.
«Sei settimane dopo la conferenza di Monaco fu la fine per noi: la Notte dei cristalli, 9 novembre 1938. Dopo l’assassinio del diplomatico tedesco Ernst vom Rath da parte del giovane ebreo Herschel Grynszpan a Parigi, sapevamo che sarebbe successo qualcosa di brutto. Il 10 novembre la Gestapo si presentò alla porta, arrestarono mio padre e lo portarono nel campo di concentramento di Dachau. Dubitavamo di poterlo rivedere. Se avessero scoperto che era il fratello di Lion sarebbe morto; fortunatamente non se ne accorsero. Nel Terzo Reich non sempre la mano sinistra sapeva cosa faceva la destra. Mio padre la descrisse come “anarchia ordinata”. Poco dopo arrivarono i furgoni e portarono via le sezioni più preziose della biblioteca di mio padre. Sicherstellen, rendere sicuro, era il termine ufficiale; un eufemismo per non dire rubare. Ben presto udimmo, probabilmente dal telefono, che funzionava ancora, ma doveva essere usato con estrema cautela, che anche un fratello minore di mio padre, Fritz, era stato portato a Dachau. Fritz era il meno illustre dei fratelli Feuchtwanger, ma l’unico che conoscessi veramente bene. Non posso descrivere la sensazione di totale impotenza che si prova in una situazione come quella».
Fu allora che decideste di emigrare?
«Dietro l’arresto degli ebrei dopo la Notte dei cristalli c’era ancora l’obiettivo di spaventarli e spingerli a lasciare la Germania. Non si pensava di internarli definitivamente nei campi di concentramento come Dachau e Sachsenhausen. I campi di sterminio come Auschwitz non esistevano ancora. Quando mio padre ritornò da Dachau poco prima del Natale del 1938 era in pessime condizioni. Aveva subito un’importante operazione solo un anno prima. Ci raccontò che i detenuti dovevano restare in piedi nel gelo. Chi crollava veniva finito. Cominciammo allora a pensare di lasciare la Germania. Dove andare? Ci furono offerti tutti i tipi di visti fasulli, da consolati di Paesi come El Salvador. Gli Stati Uniti non furono per nulla disponibili. Ciò che alla fine emerse fu che se avessimo depositato mille sterline presso il Tesoro britannico avremmo potuto andare in Gran Bretagna come famiglia, con il cosiddetto visto capitalista. Fortunatamente avevamo dei parenti all’estero, compreso mio zio Lion, che nel 1939 potevano raccogliere quella considerevole quantità di denaro».
Quando e come emigrò?
«Lasciai la Germania martedì 14 febbraio 1939 e arrivai in Gran Bretagna il giorno successivo. Mio padre mi aveva accompagnato in treno fino al confine olandese. Poco prima che il treno raggiungesse il confine, arrivarono le Ss. Chiesero a mio padre perché non emigrasse anche lui. Rispose che l’avrebbe fatto, ma per il momento doveva tornare a Monaco. Ricordo il senso di sollievo che provai quando attraversammo il confine. Sentivo che stavo lasciando un impero del male. Quando arrivammo a Hoek van Holland vidi il mare per la prima volta. Riuscivo appena a scorgerlo, ma mi prometteva una vita nuova e molto diversa».
Che cosa ricorda di sua zia Bella, morta nel Lager di Theresienstadt?
«Dopo il 1933 Bella riuscì a ottenere la cittadinanza ceca e poté viaggiare liberamente dentro e fuori la Germania, il che le dava un falso senso di sicurezza. Aveva lavorato per mio zio Martin nell’attività editoriale che aveva trasferito a Praga. Martin ricorda nelle sue memorie che, in seguito all’occupazione nazista della Cecoslovacchia nel marzo 1939, subì un ulteriore interrogatorio da parte dei nazisti e lasciò Praga il 30 aprile 1939, sperando di raggiungere la Palestina. Bella tardò troppo e fu deportata a Theresienstadt, dove morì di tifo nel 1943. La ricordo come una donna molto allegra, con un chiassoso senso dell’umorismo. Lo avevo scoperto nel 1937, all’età di 13 anni, quando avevo fatto con lei un memorabile viaggio in treno da Monaco a Berlino. Durante il viaggio mi insegnò l’importanza della tolleranza nelle vicissitudini della vita. Quando rifletto sulla sua incarcerazione e morte per mano dei nazisti, mi dico che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, un principio che mi ha motivato per tutta la mia carriera di storico».