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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Il disagio psichico dei bambini

«Certi giorni sto così male che mi prendo in braccio e mi porto a scuola», dice la ragazzina, dodici anni, Rebecca (nome di fantasia). In questi mesi, di fronte al malessere della figlia, la madre ha cercato su Google, trovando corrispondenze di sintomi con malattie come: disturbo bipolare, della personalità, dell’umore, depressione, schizofrenia.
Nei momenti di sofferenza, Rebecca rannicchiata nel letto, la madre la vede piccolissima. Tanto che ha il dubbio che si sia rimpicciolita, e la misura: 154 centimetri. Sempre 154.
Rebecca è la sintesi di tante ragazze e ragazzi passati per il Reparto di degenza protetto della Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza – Padiglione Ford, Bambino Gesù – Roma. E non solo: dei milioni di preadolescenti e adolescenti che stanno vivendo un disagio. Quello che il professor Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù, docente di Neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica, definisce «un’emergenza psichiatra» (precisando: «Un’emergenza psichiatrica dimenticata dalla politica»).
I dati: nel 2010 al pronto soccorso arrivavano 150 pazienti l’anno con richiesta di consulenza psichiatrica. Nel 2022: oltre 1.850. «I disturbi mentali – dice il professore – sono sempre più frequenti tra i bambini. Il suicidio è la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni».
Poi c’è l’autolesionismo (tagli sul corpo), disturbi alimentari, anoressia, bulimia, bambine di nove-dieci anni che pesano venti chili. L’aggressività, e la gestione della rabbia – più per i maschi. Ma soprattutto – dato difficile da far capire a una società ossessionata dal rapporto di causa/effetto – spesso non c’è un vero trauma all’origine, manca la causa scatenante; il che disorienta. Una generazione cresciuta durante la pandemia, dopo due anni s’è ritrovata nella realtà fuori, ma con un corpo diverso. Che sia questo il trauma collettivo? Insieme ai social, alla dipendenza dai social di cui Vicari dice: «Hanno un effetto simile a quello delle sostanze, la stessa ricerca spasmodica, con conseguenze su sonno e attenzione che facilmente sfociano nel disturbo mentale».

Allora Rebecca che fino a pochi mesi prima conduceva una vita normale – scuola, amici, nuoto sincronizzato – si inceppa.
Nessun trauma appunto – questo il dato drammatico.
Un giorno, dopo scuola, scrive alla madre: «Non ce la faccio più».
La madre risponde: «Di cosa?».
«Vivere».
Ogni giorno. Alti e bassi. Tagli sulle braccia che aumentano (la madre si accorge che non c’è più spazio tra un taglio e l’altro, griglia esatta). Dunque tagli, crisi di rabbia, pianti rintanata sotto il letto – e la madre accucciata sul pavimento a pregarla di venire fuori. Ogni tanto uno spiraglio di speranza la mattina, è uscita allegra – si dicono madre e padre. Aveva i capelli sciolti. Poche ore di illusione, quindi il messaggio: «Voglio morire, mamma».
Se non ci fosse quel mamma finale potrebbe essere una forma di esibizione, come sostengono le amiche che a tagli e lacrime reagiscono: «Tu vuoi attirare l’attenzione», «Che palle!!! Non fare sempre la vittima» (la madre legge le chat).
Se non ci fosse quel mamma finale avrebbero ragione le amiche che comunque sono piccole, dodici anni. Quando piange, nei momenti di grande sofferenza, Rebecca chiude gli occhi e li strizza forte. Sul suo telefono, la madre scopre un gruppo che si chiama Ciao. Unico componente del gruppo Rebecca. Rebecca che scrive a se stessa: «Fai schifo, devi morire». E subito dopo, lo stesso giorno: «Nessuno mi vuole bene».
Ecco le due – la madre si convince. L’aggressiva e la spaurita, la buona e la cattiva, entrambe di dodici anni. Una scrive, chiede aiuto. L’altra anche. Dopo avere vagato da un medico a un altro, chi le dà una terapia farmacologica troppo forte, chi dice «signora, deve prepararsi, la ragazzina vuole stare fuori dalla vita, e alla fine ci riuscirà» – dopo tutto questo, l’esplosione. Rebecca tenta il suicidio (18 pasticche di Zoloft). Ambulanza, lavanda gastrica, ricovero al Bambino Gesù, Padiglione Ford, reparto di degenza.
Ottobre – la scuola iniziata da un mese, ce la farà? – si domanda la madre. Teme che la figlia perda l’anno, non sarebbe peggio ritrovarsi dopo con ragazzi più piccoli? – i problemi insieme alle paure si moltiplicano.

Nella degenza del Padiglione Ford i ragazzi si spogliano di ogni cosa: braccialetti, anelli, collanine, lacci di felpe, lacci per capelli (consentito uno), stringhe delle scarpe. Vietato il telefono, vietati pupazzi – quando la madre alla prima visita mette in borsa l’orsacchiotto, glielo fanno riportare indietro. Vietati biglietti, libri (a disposizione una piccola biblioteca di romanzi valutati dai medici). «Questo perché – ancora Vicari – possono arrivare sollecitazioni sbagliate dall’esterno». La degenza del Padiglione Ford – ormai modello per molti ospedali italiani ed europei —, accreditata, come l’intero Bambino Gesù, dalla Joint Commission International, attraverso i ragazzi ricoverati è cambiata. Ogni modifica è il risultato del dolore di tutti i ragazzi passati da qui. Così le finestre bloccate – quanti hanno tentato la fuga dalla finestra? – e la porta blindata con accesso controllato. Così i sanitari di acciaio – qualcuno ha fatto a pezzi quelli di ceramica per ferirsi o minacciare gli infermieri. E gli appigli – sifoni, maniglie, sponde del letto, «per impiccarsi bastano ottanta centimetri di altezza» – ricorda Vicari. Telecamere ovunque, tranne in bagno.
In occasione della visita (mezz’ora al giorno, un solo genitore) la madre di Rebecca entra nella sala comune, ma non trova la figlia. L’infermiera dice: eccola – indicando una coperta appallottolata sul divanetto. E davvero sotto la coperta c’è la figlia addormentata. Mentre fuori la temperatura è di oltre trenta gradi, Rebecca ha freddo. Rebecca dice: «Qui è bellissimo, potrei rimanere per sempre». La mamma non sa se è un buon segno, il dottore dice no, non lo è. Molti ragazzi in reparto si sentono al sicuro, ma questa non è la realtà. Sedendosi vicino alla figlia, tenendola tra le braccia, la madre chiede cosa la renderebbe felice. E la bambina – ora più che mai le pare bambina, piccolissima – chiudendo gli occhi dice: «Morire». La madre, che ha imparato a non agitarsi a queste dichiarazioni, chiede: «Mi dici bene di cosa hai paura?». Rebecca tace. Dopo un po’ la madre domanda alla figlia se abbia fatto amicizia, se ci sia qualcuno di simpatico. La figlia fa sì con la testa. Racconta di Sara (nome di fantasia), 16 anni, che ha tentato il suicidio impiccandosi alla trave del soffitto di casa, e ha passato una settimana in terapia intensiva. E di Ginevra (nome di fantasia), 15 anni, al quarto ricovero in tre mesi. E di Mirco (nome di fantasia), 14 anni, che ha dato un pugno alla madre. Mirco che l’altro giorno ha detto a Rebecca: «Tu sei una bella ragazza». Poi Jennifer (nome di fantasia), poverina – racconta Rebecca. Piange sempre, e loro cercano di consolarla. Le è successa una cosa brutta – continua Rebecca – doveva andare con la classe in gita a Firenze. I professori però non l’hanno voluta perché dicevano che era una responsabilità troppo grossa, se succedeva qualcosa? Ma siccome la mamma si è arrabbiata, e ha fatto intervenire la psicologa e gli assistenti sociali, alla fine i professori hanno detto sì. A quel punto lei, Jennifer, si sentiva un peso. La sera prima della gita ha tentato il suicidio, «ha bevuto il detersivo per i piatti. La madre aveva tolto tutto da casa, tranne il detersivo».
Rebecca, Sara, Mirco, Ginevra, Jennifer – i ragazzi che si ritrovano negli stessi giorni alla degenza del Padiglione Ford. Tra un colloquio e un altro con i medici. Un paio di ore di televisione, e braccialetti di perline infilate – Rebecca ne ha fatti tre, l’ultimo per il padre che lei chiama babbo, ma visto che erano finite le A – dice – ha usato le U al contrario.
I ricoveri al Padiglione Ford sono brevi, cinque-sei giorni per curare la fase di acuzie (tranne i casi in cui di mezzo ci sono i servizi sociali e i ragazzi devono passare in struttura, come la sedicenne che la mamma faceva prostituire). I dottori consigliano ai ragazzi, una volta dimessi, di non rimanere in contatto. Molti disobbediscono, si ritrovano sui social dove si scambiano i telefoni. Ogni tanto si scrivono: «Come stai, meglio?». Perché il ritorno alla vita è complicato, e parlarsi tra simili li fa sentire meno soli. Sebbene sia comunque un ritrarsi, loro lo sanno, la vita è la scuola, i compagni che esigono leggerezza, gli adulti impreparati che consigliano ai figli di stare lontano da quegli amici problematici con disturbi – è il disturbo mentale, la malattia psichica, l’unica differenza oggi non accettata: bene tutti i fragili, tranne quelli mentali. Al punto che, senza strumenti, senza educazione alla differenza, un pomeriggio come tanti, un gruppo di amiche riunite per divertimento manda messaggi anonimi a Rebecca: «Fai schifo, spero che te enveste n camion, cicciona brufolosa demmerda». Invio, risate. Risate nella cameretta piena di pupazzi e di cuori. Messaggio ricevuto nell’altra cameretta, anche questa piena di pupazzi e di cuori. (A dodici anni che differenza c’è tra vittima e carnefice? Come riconoscere il ragazzo in grado di fare male? Come spiegarlo ai genitori? Provare a convincerli? Poi rinunciare).
Quando sul telefono della madre di Rebecca arriva il messaggio della mamma di una compagna della figlia che le ricorda il pagamento per l’iscrizione a nuoto sincronizzato, lì per lì la madre ha un moto di rabbia. Le vede le altre riprodursi in verticali e capriole. Mentre sua figlia sta in ospedale, c’è un mondo fuori che fa nuoto sincronizzato. E quel mondo è la prova tangibile del tempo che passa, delle ragazze sane che crescono, e la sua no. La sua è ferma. Da mesi, e chissà per quanto ancora. Un altro dato difficile da accettare: il tempo. Il fatto che ci sia qualcuno che rimane indietro. (Potrebbe far parte anche questo di una rieducazione collettiva?).

Prima di andare via, la madre, carezzando la figlia, chiede di nuovo: «Di cosa hai paura?». «Rimanere sola», risponde stavolta Rebecca, col cuscino sulla testa, a nascondersi. Sommando il voglio morire alla paura di rimanere sola la madre si rincuora. Bacia la figlia, e via, nel corridoio fino alla porta blindata, e oltre: lungo la galleria di collegamento, e all’aria aperta – come emergendo da sottoterra. La madre pensa che sommando le frasi di Rebecca, sommando le due – tornano le due – l’aggressiva e la remissiva, la spavalda e la inerme accoccolata tra le sue braccia, sommandole viene fuori una ragazza che potrebbe farcela.
È cambiato il baricentro: dopo il ricovero, i tagli, i tentati suicidi, la malattia spaventa meno: non è così enormemente più significativo essere vivi? Quelle due creature – ammesso che siano due, e che non sia una fase, o addirittura una suggestione della madre —, quelle due creature insieme magari si possono salvare, nel senso di riuscire a vivere. Forse lo stanno già facendo, questi sono tutti tentativi, ora ha il sopravvento una, ora l’altra. Quando una prende in braccio l’altra e la porta a scuola.