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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Storia di Bambi

Sono definiti senza tempo, vocati a una lunga vita se non addirittura all’immortalità. Sono quei libri che, pur a distanza di molte stagioni, di decenni se non addirittura di secoli dalla loro prima pubblicazione, continuano ad ammaliare, a far riflettere fino a indurci a qualche cambiamento, a sottolineare un alto livello di attualità, a rimanere in avanguardia. O, più semplicemente, a farci ottima compagnia.
Tra i libri di questa illustre seppur ristretta categoria un posto in prima fila sul palco d’onore va assegnato a Bambi, che Giunti Editore ripropone in grande stile a cento anni dalla sua prima edizione e nella sua versione rigorosamente originale – e anche qui sta il bello – grazie al lavoro sapiente della traduttrice Gabriella Pandolfo, che ha lasciato al testo potenza e forza, senza edulcorazioni di sorta per renderlo meno crudo. Perché la natura, che è protagonista della storia, è come è nella realtà: ha comportamenti, regole e leggi che non possono essere falsificate, tantomeno in una narrazione così precisa. Originale è anche il sottotitolo, «una vita nel bosco», perché il bosco non è semplice sfondo o palcoscenico in cui si muovono i protagonisti, ma è lui stesso primo attore.
Il libro, rivolto a lettori adulti e colti, come era nella tradizione avviata dal francese Charles Perrault nella seconda parte del 1600 – Cappuccetto Rosso, Cenerentola, La bella addormentata, Pollicino e altre sue fiabe ancora erano destinate al pubblico di Corte, anche perché allora erano rari i bambini che sapevano leggere e interpretare – è stato scritto nel 1923 da Siegmund Salzmann con lo pseudonimo di Felix Salten, forse per celare la sua discendenza da una famiglia di rabbini ortodossi. L’autore nacque in Ungheria, crebbe a Vienna e, poco prima della seconda guerra mondiale, si trasferì in Svizzera. Fece il giornalista, lo sceneggiatore e diresse anche un film muto, ma il successo lo ottenne con il romanzo Bambi (nome che prese in prestito dall’italiano «bambino»).
Complicata fu la vendita dei diritti d’autore per le successive edizioni e pure il loro acquisto da parte della Walt Disney, che nel 1942 trasformò la storia del capriolo (e trasformò anche il capriolo in un cervo) in un film d’animazione di grande impegno – la sola sceneggiatura richiese quattro anni di lavoro – e poi di incredibile successo. Film animato su cui, inutile negarlo, anche noi, oggi adulti che non ci emozioniamo quasi più, abbiamo sorriso, palpitato e, alla fine, pianto. Ma quel «cartone animato», così lo chiamavamo, che pure ha messo in ombra per anni il romanzo di Felix Salten, non è la vera storia di Bambi, come l’autore l’ha creata, ma un adattamento, parola in verità presente in molti documenti, edizioni e titoli di coda ma spesso ignorata.A riportare Bambi sul giusto sentiero ecco dunque l’opera preziosa di Giunti, che ha avuto la geniale idea di chiedere il contributo di Fabian Negrin, argentino di nascita e residente in Italia da oltre un trentennio, considerato uno dei più sensibili scrittori di libri per ragazzi e, soprattutto, uno dei più grandi illustratori del nostro tempo.
La sua arte si fonde alla perfezione con il testo originale, si mostra in una alchimia perfetta, figure e parole non sono più separabili. Per rendere le immagini in assoluta armonia con la storia, Negrin ha usato anche tecniche e materiali assai diversi, scelte in base allo scorrere del tempo, alle stagioni, agli eventi del momento. Dunque pastelli a olio e cera per le vignette e i disegni scontornati inseriti nel testo, mentre tempere e pigmenti alla glicerina per i grandi ritratti degli animali che sembrano voler uscire dal testo, paiono sbucare davvero dal fogliame degli alberi o dagli arbusti del sottobosco, animando con carattere e vivacità la scena. Negrin ha amato veramente Bambi, lo ha considerato un’opera radicale e di alta letteratura. Una storia perfetta e, come ebbe modo di dichiarare pure in una intervista sul suo lavoro di artista, se la storia è bella anche le illustrazioni vengono bene, perché sono, per via naturale, subito sostenute dal testo. Se il testo scorre le illustrazioni lo accompagnano senza sforzo, come una foglia nella corrente. Un buon libro non deve necessariamente dare precisi insegnamenti al lettore, come facevano invece i grandi favolisti del passato, Fedro ed Esopo, per esempio, i quali scrivevano curiose ma brevi avventure animalesche per arrivare dritti a una morale alla quale attenersi (chi troppo vuole nulla stringe), ma raccontare, con parole e disegni, storie semplici e al tempo stesso capaci di far riflettere, dalle quali poi sarà il lettore stesso, con la propria osservazione, con la fantasia e l’intelligenza a trarre i giusti messaggi, a vedere oltre l’orizzonte compatto formato da una cortina di alberi che non è barriera ma protezione. In Bambi del centenario le parole e le immagini creano uno stato armonico che il lettore subito avverte e fa suo, dando assolutamente ragione al pensiero di Fabian Negrin e, probabilmente, all’intento dell’autore stesso.Un’altra meraviglia del testo originale sapientemente riproposto, è dovuta al fatto che gli animali e il bosco non sono artefatti; parlano, sì, tra di loro come fanno gli umani ma non sono umanizzati, alterati, travisati come in moltissime altre favole. Non dormono in letti, non si travestono da nonne o indossano gli stivali, non si riparano dal vento in case di legno dal camino fumante. Svolgono il loro ruolo per cui sono stati creati in un contesto altrettanto naturale. A volte Felix Salten sembra volercelo ricordare: «Bambi era un cucciolo. Se fosse stato un bambino avrebbe esultato. Ma lui era un piccolo capriolo, e i caprioli non possono esultare, almeno non come fanno i bambini. Lui esultava a modo suo. Saltando in aria con tutto il corpo, dandosi la spinta con le zampe».Caprioli, cervi imponenti, conigli timorosi, scoiattoli gentili, gazze petulanti e lamentose, allocchi permalosi sono così come potremo incontrarli domani nell’attraversare una foresta; con gli stessi comportamenti, le medesime paure, beati per la quiete di un prato soleggiato o nell’ansia di una fuga precipitosa. Specie quando arriva «Lui», l’uomo, che in Bambi non ha mai un nome ma un ruolo avverso, il cacciatore. Tuttavia, come imparerà il nostro capriolo, osservando questo predatore morente, «anche lui è fragile. Non è forte e onnipotente come tutti dicono. Non è grazie a lui che le cose crescono e vivono. Lui è come noi, siamo allo stesso livello».Parole che mi riportano alla mente quanto mi fece notare tempo fa Giulia Terlicher, una giovane amica che vive nella grande foresta di Tarvisio e che fa del bosco la sua casa e la sua attività. «Diciamo sempre “uomo e natura”, ma manca un accento. “L’uomo è natura”, ne è parte integrante, è ingranaggio dell’articolato marchingegno».Dunque non è proprietario, conquistatore, violentatore autorizzato. Può esserne invece custode o viandante. Il bosco lo sa, si riappropria silenziosamente degli spazi che gli avevamo sottratto (mi sia permessa una digressione statistica: il nostro territorio è ricoperto per il 36,7% da boschi, con un incremento del 20% negli ultimi due decenni), offre protezione e nutrimento agli animali che s’erano smarriti e sono tornati. Dobbiamo imparare di nuovo a frequentarlo, a conoscerlo, a rispettarlo evitando piccoli gesti e grandi atti vandalici, a non abusarne di nuovo, a ricordare che per migliaia e migliaia d’anni è stato anche nostro rifugio e sostentamento. Questa nuova versione di Bambi firmata Giunti, oltre a celebrare come meglio non si poteva il centenario di un classico della narrativa senza tempo, serve anche a ricordarci tutto questo. Perché noi, appunto, siamo natura.