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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Odifreddi e gli inconvenienti dell’intelligenza

Piergiorgio Odifreddi è un logico. «Non immagina che vita infernale, in un mondo insensato come il nostro», dice. Per logica, il suo nuovo libro, sèguito di Pillole matematiche, avrebbe voluto intitolarlo “Supposte”, ma poi ha desistito. Con rammarico. Dice: «Durante le conferenze, quando dicevo che dopo le pillole avrei scritto le supposte, tutti ridevano. In più, supposte è un termine perfettamente matematico perché significa ipotesi, e l’ipotesi è ciò che viene sotteso, cioè teso sotto al discorso». Alla fine, però, ha fatto prevalere «la continenza sulla goliardia» e ha scelto A piccole dosi. Avrebbe voluto in copertina l’immagine di un Pi greco fatto di cocaina, ma ha desistito anche da quello, su caldo suggerimento dell’editore – «Non facciamoci arrestare».
Odifreddi ride molto. Cuneese, abita a Torino, in collina, lontano dal centro, da anni, conosce poco la città. Non ama i rumori, accetta il caos. Chiede al giardiniere di smetterla con il tosaerba e riprendere più tardi. «Gli ho detto mille volte di fare come in Anna Karenina e usare la falce, ma niente, si ostina con quell’affare meccanico roboante», dice. È un uomo di spirito. Il suo nuovo libro è difficile e indispensabile: segue dal precedente, Pillole, con cui ci metteva la matematica in tasca, spiegandocene i teoremi fondamentali, le applicazioni, e mostrandoci che reggono tutto, dalla fisica ai romanzi. A piccole dosi fa un passo più avanti e ci porta nella matematica pura, quella astratta e creativa, che non sempre ha applicazioni. È un viaggio in un ignoto inventato, e Odifreddi lo conduce servendosi di Mozart, Gadda, Dante, Dalì, Manganelli, Perec per raccontarci che differenza c’è tra illimitato e infinito; in che modo il battito d’ali di una farfalla può generare un tornado; chi ha scoperto il sistema eliocentrico cent’anni prima di Copernico; perché i pianoforti a coda hanno una forma curva; perché il teorema di Pitagora non vale nella geometria iperbolica ma solo in quella euclidea. Le regole fondamentali di ogni racconto: dimostrare che a muovere una scoperta è il disinteresse, il piacere puro; svelare la storia delle persone, dei casi, delle relazioni che sta dietro i numeri, gli assi, i piani.

Professore, la matematica non è democratica?
«Ci vuole più tempo per capirla. In matematica non ci sono enfant prodige perché è una disciplina che richiede una capacità che sviluppiamo intorno ai 12, 13 anni: fare deduzioni. Pascal è stato uno dei più precoci e il suo Trattato sulle coniche lo scrisse a 16 anni. Mozart a 5 anni componeva».
Resta che ci terrorizza.
«Certo, perché ci ostiniamo a far studiare ai bambini teoremi e concetti, mentre dovremmo farli giocare con le figure geometriche. A 14 anni, quando cominciano ad acquisire gli strumenti per capire e praticare la matematica, sono distratti da altro, hanno la vitalità al massimo, e quindi più difficilmente scelgono un percorso di studi vicino a qualcosa che quando erano piccoli gli è stata proposta come un labirinto di regole. Una volta tenni una conferenza in una scuola elementare e chiesi: quanti angoli ha un triangolo? Una bambina rispose subito: tre! Lapalissiano. Capii che bisogna mettersi dal punto di vista dei bambini, della loro immediatezza».
L’immediatezza coglie la verità?

«Non sempre».
La matematica distingue, come la filosofia, la realtà dalla verità?

«La verità è lo specchio della realtà: quello che gli scolastici chiamavano adaequatio rei et intellectus, la corrispondenza tra le cose del mondo e il nostro modo di percepirle. Tu dici una cosa e quella cosa è vera se succede».
Quindi la verità esiste?

«A dispetto di quello che hanno cercato di farci credere i postmoderni, che la ritenevano un’invenzione fascista, certo che sì. E se vai in banca, te ne accorgi. La matematica è basata sulla verità».
Ma non c’erano tante verità?

«Certo. Esiste quella storica, quella giudiziaria, quella scientifica. La verità matematica è la più bella».
Perché?

«Perché puoi dedurla con la forza dell’intelletto: sono solo i tuoi ragionamenti che ti permettono di vederla. È come diceva Cartesio: se voglio sapere che cosa è vero, chiudo gli occhi, non c’è bisogno di guardare fuori. La verità scientifica è diversa: si basa sul confronto con i dati dell’osservazione. È una verità di secondo grado. La verità storica è ancora più lontana perché presuppone che tu creda ai testimoni, ed esistono tante versioni di un fatto quanti sono i testimoni che lo hanno visto succedere. La verità giuridica, ugualmente, è discrezionale; diciamo che il giudice stabilisce e non che scopre: emana un verdetto. Niente di tutto questo vale per la matematica, che quindi è in assoluto la disciplina più vicina alla verità astratta che l’uomo può raggiungere».
È immune dal relativismo, allora?

«Al contrario, ne è posseduta. La somma degli angoli è 180 nella geografia euclidea ma non in quella sferica, per esempio. Conta il punto di partenza, il sistema di riferimento».
Lei, ateo relativista, come ha fatto a diventare amico di Benedetto XVI, credente e assolutista?

«Gli dicevo sempre che ci sono due anagrammi fondamentali de “la verità”: uno è “rivelata” e l’altro è “relativa”. E ce n’è anche un terzo: “vietarla”. Anche nelle lettere c’è questa contrapposizione tra l’assolutismo della rivelazione e il relativismo della matematica».
La matematica risente anche dello spirito del tempo?
«Non ricordo verità matematiche, relative come detto, che siano state sconfessate. Si potrebbe dire che sono eterne, forse. A non essere eterno, però, è il modo in cui le si approccia. Newton e Leibniz inventarono il calcolo infinitesimale, ciascuno in un modo proprio, ma ottenendo i medesimi risultati. Esiste, quindi, una soggettività anche in un mondo tanto oggettivo come quello della matematica, ed è la soggettività di quelli che la fanno, che assorbono il proprio tempo e da esso desumono le idee da cui partono per elaborarne altre».
Chiara Valerio dice che la matematica è invenzione pura: l’unica disciplina che, quando crea, non parte da qualcosa di preesistente.

«È un punto di vista. Ci sono persone che sono a loro agio con l’astrazione pura, quindi l’invenzione pura. Ne conosco altre che hanno abbandonato gli studi universitari perché troppo astratti. Io non ebbi quella reazione, eppure arrivavo dal geometra, scuola superiore massimamente concreta. Io addirittura seguivo i bourbakisti, un gruppo di matematici francesi degli anni ‘30 che avevano deciso di riformare la matematica e fondarla solamente su quella astratta: tra di loro c’era André Weil, il fratello di Simone Weil, la filosofa. Nei loro carteggi, lui le spiegava cosa cercava di fare ma lei gli rispondeva: non riesco a seguirti. Ed era una filosofa! L’astrazione è il punto finale, non può sostituirsi allo studio delle origini del pensiero. Per questo, con gli anni, ho abbandonato i bourbakisti, e mi sono dedicato a una divulgazione che è una specie di archeologia: scavo e ricostruisco l’evoluzione della matematica. Chiara Valerio la capisco benissimo, però lei è un’apostata: ha preferito fare la letterata. Come Coetzee, che dopo cinque anni da programmatore informatico, ha deciso di fare il romanziere e della sua vita precedente non c’è traccia nei suoi racconti, se non nel suo libro autobiografico. Elias Canetti era un chimico di formazione: gli venne assegnato il Nobel per la Letteratura lo stesso anno in cui Hoffman prese quello per la Fisica. Quando Hoffman, appassionatissimo di poesia, gli chiese cosa avesse fatto, in letteratura, dei suoi studi scientifici, Canetti rispose: “Niente, li ho abbandonati completamente"».
E lei cosa fa, della letteratura, nei suoi studi matematici?

«Per Nabokov ci sono tre modi di leggere un romanzo: quello infantile, volto a scoprire come va a finire la storia; quello adolescenziale, interessato al messaggio morale dello scrittore; quello maturo, che per lui è il migliore, che vuole capire come la storia è stata scritta. Niente mi appassiona di più di smontare un romanzo per capire come è stato costruito. Calvino è l’esempio migliore di scrittore capace di concepire la letteratura come un’opera architettonica: una letteratura dove costruire è persino più importante di raccontare. E infatti Calvino faceva parte dell’Ufficio di letteratura potenziale, l’OuLiPo, fondato negli anni Sessanta in Francia, per studiare nuovi schemi e strutture di scrittura. Erano ammessi solo scrittori e matematici. Esiste anche una federazione italiana dell’OuLiPO, fondata proprio da Calvino. È piena di enigmisti, ne faccio parte anche io. Anni fa, creai un romanzo con i miei sms: stavo divorziando e avevo in piedi due relazioni, usai i messaggi che mandavo a due donne diverse, che s’infuriarono. Incredibile quanti guai si possano combinare in poche decine di caratteri».
Lei è goloso?

«Alla mia prima poppata, appena nato, ingurgitai 150 grammi di latte. Ebbi un’indigestione, mi tennero lontano dal seno di mia madre per due giorni».
Una volta ha detto: ho spirito ma non ho anima.

«L’anima è un concetto religioso. Nessuno scienziato ci crede. I politici, invece, soprattutto quelli italiani, ci credono tantissimo e io me ne stupisco sempre».
Forse hanno paura delle morte. Lei non ne ha?

«Non è molto lontana, l’ho anche calcolata su un sito che usa le statistiche per dirti approssimativamente quando te ne andrai. Temo solo la sofferenza. Mi colpisce la curiosità morbosa che abbiamo su quello che c’è dopo la vita: nessuno si interroga mai su quello che viene prima. Ci chiediamo sempre dove andremo e mai da dove siamo venuti».
Mi racconti di quando l’hanno scambiata per una spia russa.

«Nel 1982 mi trasferii in Siberia per insegnare. Mentre ero lì, a Genova, due russi che facevano spionaggio industriale vennero fermati, processati e imprigionati. Mosca non gradì e, per fare pressione su Roma e ottenere il rilascio dei loro uomini, fermò tre italiani a caso: un giornalista del Giorno, un industriale e il sottoscritto. Ci tennero bloccati per sei mesi. La mia vita non cambiò in nulla, a parte la seccatura di andare ogni tot al Kgb a rispondere a domande che erano sempre le stesse. Andreotti fece una trattativa per liberarci e vinse. Quando mi riportarono in Italia, feci tappa a Mosca e l’ambasciatore italiano mi disse che il governo aveva fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare e cioè cedere le spie per riavere noi tre. Mi raccomandò, quindi, di non dirlo a nessuno, cosa che onorai. Al mio rientro, tuttavia, su tutti i giornali italiani si discuteva di quanto fossimo stati fessi a non trattenere quelle spie».
Lei è un genio?

«La gente immagina che i geni siano chissà chi. Io ne ho conosciuti tanti. Ho scritto un libro in cui ho intervistato 50 Premi Nobel, e molti di loro erano dei geni: posso dirle che sono persone molto intelligenti, che una o due volte nella vita hanno avuto un’idea, un’intuizione eccezionale».
Cos’è l’intelligenza?
«Un fardello. Una volta, durante un’intervista in tv, a Gadda venne mostrata la foto di una classe di studenti. Lui indicò un ragazzino e disse: questo qua è un deficiente. Il conduttore lo riprese e lui gli rispose: non tutti sono condannati a essere intelligenti»