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 2023  ottobre 20 Venerdì calendario

Il 13 per cento dei giocatori è a rischio ludopatia

Ci sono tre comunità scientifiche dove le rivelazioni sulladipendenza patologica dalle scommesse di Nicolò Fagioli e Sandro Tonali che hanno scioccato l’opinione pubblica italiana non destano nessuna sorpresa: i Dipartimenti di Neuroscienze del Karolinska Institutet di Stoccolma (quello dei Nobel), di Psichiatria dell’Università di Oxford e di Psicologia dell’Imperial College di Londra.In questi celebri poli di ricerca sono stati elaborati i più importanti tra gli oltre 500 studi recenti su un tema la cui gravità è riassumibile con un solo numero: se il rischio di sviluppare ludopatia interessa 0,5/0,8 cittadini europei su 100, la percentuale sale almeno al 13% tra i calciatori professionisti. Un problema spiegato da uno dei calciatori di Premier League che ha accettato il confronto con gli studiosi inglesi: «Scommettere mi dava lo stesso entusiasmo, la stessa eccitazione del gol o della vittoria. Un brivido a cui potevo accedere senza limiti e che mi ha tolto ogni freno».
Le ragioni della ludopatia nei calciatori di alto livello non sono così ovvie. Non ci sono evidenze, ad esempio, sul fatto che le sponsorizzazioni di aziende del settore scommesse alle squadre di calcio e la loro pubblicità (proibite in Italia dal Decreto Dignità) influiscano sulla patologia, normalizzando l’azzardo.
Primo perché si tratta di operatori legali, secondo perché l’equazione proibizionista (non ne parliamo, quindi nessuno scommette) non è mai stata dimostrata e terzo perché la ludopatia tra i calciatori segue canali diversi da quelli legali e passa attraverso contatti diretti con gli allibratori e canali illegali mai perseguiti con efficacia dalle autorità. A creare influenza e pressioni è piuttosto «una chiara sottocultura del gioco d’azzardo» all’interno di alcune squadre che ad esempio «favorisce l’accesso a partite di poker ad alte poste in gioco e scommesse sulle corse di cavalli… e dove la partecipazione alle attività d’azzardo appare positiva per lo spirito di squadra, normalizzando le scommesse pesanti e facendole sembrare “la cosa giusta da fare”». Questa tendenza, dicono gli esperti, sarebbe cresciuta moltissimo durante l’isolamento da Covid.
La testimonianza
«Tornando dalla partita tutti parlavano
di puntate, sembrava
la cosa giusta da fare»
I calciatori ricalcano il profilo dello scommettitore tipo: maschi, età inferiore ai 35 anni, livello di istruzione medio-basso, assenza di famiglia e responsabilità collegate. La seconda ragione è che l’azzardo, come spiega un altro calciatore in terapia, «risuona all’orecchio in ogni momento, dalle pause di allenamento ai voli aerei. Si gioca alle carte, alle slot, sui cavalli e ovviamente sulle partite». Pesano molto la solitudine del calciatore (lo «spogliatoio» è ridotto al minimo, per differenze linguistiche e culturali tra i componenti dei club e tendenza a chiudersi in se stessi e sul proprio cellulare) ma anche «i conflitti emotivi derivanti da una carriera professionale sempre più competitiva, le pressioni e i giudizi dei social media, la paura di infortuni che mettono a rischio la carriera e creano tensioni emotive» oltre ovviamente a disponibilità finanziarie importanti che, vedi il caso Fagioli, possono però esaurirsi rapidamente e creare situazioni drammatiche.
Gli psicologi danno al fenomeno anche un’altra interpretazione: alcuni calciatori interiorizzano una competitività sempre maggiore che emerge nei momenti di riposo e le scommesse sportive – in cui l’azzardo viene confuso come abilità personale – sostituiscono l’adrenalina del match. Insomma, un modo pericoloso di colmare i vuoti, le pause tra allenamenti e partite che una volta erano dedicate alla socializzazione.
La soluzione riguarda direttamente i club che devono lavorare alla prevenzione di un problema che si manifesta già a 16 anni, alla firma dei primi contratti su soggetti anagraficamente fragili che entrano in contatto con un ambiente che par loro leggendario: sradicare la cultura dell’azzardo all’interno dello spogliatoio, aiutare i giocatori a gestire il loro tempo libero, ingaggiare specialisti che individuino il disagio ai primi segnali e lo curino tenendo conto di un’altra evidenza scientifica emersa: anche nell’entourage tecnico dei club si scommette molto. «Sono entrato in prima squadra giovanissimo – spiega un giocatore di Premier League – e di ritorno dalla partita, in autobus, tutti parlavano di scommesse vinte o perse. A tutti sembrava la cosa giusta da fare. Così pensi che sia parte del calcio, parte della cultura calcistica. E ti senti in dovere di partecipare per sentirti coinvolto e far parte del gruppo».