Corriere della Sera, 20 ottobre 2023
Intervista a Walter Veltroni
Alessandro Del Piero: «I numeri 10 sono tramontati perché refrattari alle regole. Il caso Mancini? Una brutta figura per tutti. Il mio infortunio a 24 anni fu terribile, ma scoprii una forza d’animo che non conoscevo. Non dimenticherò mai l’incontro con mio padre elettricista dopo la vittoria della Champions»
Del numero dieci Alessandro Del Piero parlò così, anni fa: «È il numero che portano i più talentuosi, quelli che uniscono fantasia e genialità, dribbling e visione del gioco. Il dieci è un modo di concepire il calcio».
«Non cambio idea: racchiude genialità, imprevedibilità, la capacità di far vedere cose che gli altri neanche pensano siano possibili o immaginabili. Spesso si dice che i numeri dieci sono incompresi. È vero, perché non stanno nelle regole. La storia calcistica del numero dieci racconta di un ruolo i cui interpreti avevano la possibilità, rispetto ad altri giocatori, di curare più il proprio gioco, erano meno assillati dai doveri tattici. Assicuravano estro, fantasia, capacità di risolvere situazioni o partite ma in cambio godevano di libertà. Poi il calcio ha cominciato a cambiare, proprio nel mio periodo. Si è cominciato a chiedere al dieci di essere come gli altri, di farsi carico delle esigenze tattiche, di essere imbrigliato in un meccanismo che deve essere perfetto».
Anche il calcio è passato dalla fantasia all’algoritmo...
«Si è passati dal lasciarli tranquilli a esprimere la loro creatività a chiedergli di correre come il quattro, come l’otto. Però questa scelta conteneva, contiene, un paradosso. Comunque al dieci si chiede di fare tutto come gli altri, ma poi di inventare soluzioni decisive. Gli si chiede di tirare le punizioni, di tentare il colpo di tacco. Cose per le quali devi essere lucido, fresco e libero, in testa e nei polmoni. Il dieci, nella storia, ha sempre fatto un po’ fatica a correre. Era la sua caratteristica: meno chilometri, più fantasia. Ora domina la fisicità, anche se l’ultimo mondiale l’ha vinto il vecchio calcio, quello in cui la squadra, l’Argentina, era dedicata al suo numero dieci, gli consentiva di prendere le pause che voleva per sfruttarne meglio la genialità e l’immaginazione».
Zola, nella sua intervista, mi ha detto che è con Sacchi che il numero dieci comincia a tramontare...
«Sacchi ha cambiato il calcio, il suo modo di intenderlo è diventato un riferimento. Il suo numero dieci era Ruud Gullit, mio amico, che, non me ne voglia, ha mille doti ma quelle precipue non attengono alla sfera tecnica o alla fantasia. Aveva altre specialità. In quel Milan era perfetto. Sacchi esigeva molto. In quella squadra era Donadoni, giocatore troppo sottovalutato, ad assicurare, oltre alla quantità, una qualità sopraffina. Zola ha ragione: in quel tempo è nato un calcio diverso, in cui la priorità è correre. Correre e rispettare canoni tattici molto importanti e molto rigidi».
Nel calcio con cui sono cresciuto esistevano due figure «pensanti», in campo, il libero e il numero dieci: Picchi e Suarez, Moore e Charlton, Maldini e Rivera, Scirea e Platini. Non è che anche il dieci finirà come il libero, nel palio delle contrade morte?
«Non voglio essere definitivo. È difficile paragonare le stagioni, nel calcio come nella storia. Io sono cresciuto con quel calcio lì, con Scirea e Platini. Scirea è stato, con Beckenbauer, il giocatore che dalla difesa sapeva impostare, andava avanti, sfruttava la sua libertà per costruire gioco. Oggi si è tornati a giocare a uomo – Gasperini, Juric, Tudor – ma c’è il desiderio di un tatticismo integrale, il far muovere in massa la squadra, sincronizzata. L’obiettivo è conquistare palla, tenere palla. Ci sono anche esempi contrari, in giro. Ma in generale, nel calcio moderno, tutti devono saper fare tutto. Non c’è difensore, persino il portiere, che oggi non sappia toccare bene il pallone».
Quindi l’irregolarità del dieci tende a sparire? Andiamo verso un calcio più freddo, quasi autoritario?
«Molte nuove generazioni di allenatori e giocatori crescono nel mito di Guardiola, che applica quella filosofia di gioco. Poi lui fa bene, vince, quindi, nel senso comune, ha ragione. Però in Inghilterra ci sono realtà che si esprimono in modo diverso. Klopp ha un’altra filosofia, pensa il calcio in verticale. E anche lui ha vinto. Questo rende difficile immaginare che, anche nel calcio, possa dominare un “pensiero unico”. Aggiungo: per fortuna».
Platini mi ha detto che esistono i dieci e i nove e mezzo. I primi in Europa e i secondi nel calcio sudamericano. Ha ragione? E tu dove ti collocheresti?
«Platini credo mi piazzerebbe tra i nove e mezzo perché spesso ho ricoperto il ruolo di seconda punta, talvolta persino di prima. Io però sarei curioso di sapere Platini come considera sé stesso. Perché l’ho visto varie volte agire come attaccante, cercare il gol, tanto che è stato anche capocannoniere del campionato. Tardelli, Furino, Bonini lo hanno aiutato parecchio...».
C’è una solitudine del numero dieci, in campo?
«Sì, c’è sempre grande aspettativa nei confronti di chi indossa quella maglia. C’è solitudine anche nella tipologia delle giocate che vengono richieste, anche nel calcio di oggi. Da Messi ci si aspetta il gol o l’assist, non solo che faccia girare la squadra. Se fa solo quello, non basta. C’è solitudine, tanta, nella scelta delle giocate e persino nella loro ideazione».
Ti sembra che nelle scuole calcio si insegni più tattica che tecnica? È difficile, ormai, trovare giocatori che sappiano saltare l’uomo o fare lanci di venti metri.
«Hai già risposto. Non conosco bene i settori giovanili, ma riconosco la filosofia di molti tecnici, la loro concezione del gioco. Oggi la prima richiesta è quella della fisicità. Ci sono settori giovanili nei quali se un ragazzo non è nato entro marzo, neanche ti guardano. Calcola che io sono di novembre e giocavo con ragazzi nati a gennaio, che avevano quasi un anno in più di me. E a tredici o quattordici anni quel tempo fa la differenza, in primo luogo fisicamente. L’allenatore delle giovanili bravo non è quello che vince il campionato della sua categoria, ma chi porta il maggior numero di ragazzi al livello superiore. Chi fa quel mestiere deve sentirsi un formatore, un insegnante di calcio e invece spesso si punta solo a vincere, perché se si arriva primi nella propria categoria allora si farà carriera. È il metro di giudizio, che è sbagliato. Ciò che conta è quanti ragazzi sono migliorati, non quanti punti hai fatto nella stagione».
Ma non è che il calcio sta diventando noioso? Nella società istantanea nella quale viviamo forse i novanta, ormai cento, minuti di una partita sono diventati anacronistici? I dati parlano di una disaffezione dei ragazzi digitali dal football...
«Qui si apre un argomento complesso. I dati sono chiari. Il calcio in Italia è diventato noioso, perché il livello si è abbassato, rispetto al passato. Qui venivano a giocare i più forti, i più grandi, tutti desideravano competere qua. Ora i più forti, i più grandi, vanno a giocare in Premier, nella Liga, persino in Francia o in Germania. Non qui. Questo vale per noi. Ma in Inghilterra il calcio non è noioso. Secondo me in questa disaffezione contano anche altri fattori. In primo luogo l’irruzione delle tecnologie. I telefoni, i videogames hanno un livello di soddisfazione del bisogno di divertimento incomparabile con quello della mia infanzia. La società digitale ci fa vivere meglio, ma ci toglie creatività».
Che differenza c’è tra il divertimento di due bambini di oggi e di ieri?
«La domenica io andavo a messa ma non vedevo l’ora di andare al bar a giocare a flipper o a calciobalilla. Mi bastava, era bellissimo. Oggi purtroppo viviamo in una società sempre più veloce, che pretende risultati immediati. Però l’uva arriva una volta l’anno. E se la vuoi buona devi aspettare, devi curare la vite, arare il terreno, dargli acqua, proteggerla della grandine... La natura ha un suo corso e noi facciamo parte della natura. Si esagera con le aspettative nei confronti dei ragazzi e i ragazzi lo sentono. Si chiede loro di vincere, di avere successo, di essere sempre competitivi. Queste attese sono un fardello pesante su spalle in formazione. I ragazzi se le caricano addosso e, siccome non tutti ce la possono fare, si diffondono disagio, stress, insicurezza, senso del fallimento, ansia. Il tempo della vita, anche nello sport, va vissuto, non consumato».
E la televisione?
«Indubbiamente l’avvento di un’offerta così massiccia, il vedere calcio continuamente, non aiuta. Quando hai voglia di un buon dolce ma puoi mangiarlo tutti giorni, alla fine ti stanchi. C’è bisogno del desiderio, c’è bisogno dell’attesa. In tutto. Ma la televisione e i social, se fatti bene, possono aiutare a trasmettere il bello del calcio, i valori positivi, la voglia di giocare».
Ti sconcerta la vicenda dei giovani calciatori che scommettono sulle partite?
«È un argomento grande e complesso, per me sono cose difficili da comprendere. Lo sport deve bastare. Per me c’era solo il campo. Esistevano regole precise che riguardavano droghe e scommesse. Non avrei mai fatto nulla che potesse in nessun mondo rovinare il mio sogno. Né prima, quando ero giovane, né dopo, quando ho avuto successo».
Che sta succedendo alla Juve? Non parlo dei risultati, capita di non vincere sempre, ci mancherebbe. Parlo della sua immagine...
«Nella Juve sei sempre sotto pressione. Quella società è, comunque, un punto di riferimento. Non solo per i tifosi bianconeri. Credo che tutti, dopo aver chiesto del risultato della formazione del cuore, si informino di cosa ha fatto la Juve. Sperando il meglio o il peggio. Comunque è una società centrale, nella storia del calcio italiano. È molto di più di una squadra di football. Quando hai tante pressioni, tante responsabilità e affronti momenti di cambiamento, passaggi generazionali e conclusioni di cicli fortunati, è ovvio che non tutto possa andare nel verso giusto. È in corso un riassestamento, e da tifoso mi auguro che le scelte fatte siano corrette perché speriamo di tornare a vedere una Juve che possa dire la sua non solo in Italia, ma in Europa».
Tu nella Juventus, Totti nella Roma, Maldini nel Milan. Perché voi che avete scritto la storia restando, nei momenti fortunati e in quelli sfortunati, con quella maglia, non siete ai vertici delle società?
«Per il mio percorso, per tutti gli anni nei quali abbiamo condiviso tantissime gioie e anche il momento più buio della serie B, con la Juve ho costruito un rapporto speciale. Non solo perché tifo bianconero, ma perché diciannove anni sono davvero tanti. Le persone mi chiedono: “Perché non torni alla Juve?”. Io rispondo che non devo tornare, perché non sono mai andato via. Quando passi tanto tempo e tante esperienze in una comunità le radici affondano nel terreno. Ok, oggi non ci lavoro, va bene – magari in futuro le cose cambieranno, chi lo sa? —, ma non mi sentirò mai lontano. Una parte importante del mio cuore è lì. E lo sarà per sempre. Sempre dalla stessa parte».
Il caso Mancini, i campioni in Arabia. I soldi sono tutto?
«C’è la volontà da parte del mondo saudita di dire la propria sul calcio: si stanno organizzando, hanno dei fondi incredibili e questo, diciamoci la verità, aiuta il loro progetto. Delle volte è veramente difficile dire di no, altre ci si può riuscire. Dipende, dipende anche da quello che ciascuno cerca. Sul discorso Mancini posso solo dire, vivendo tanto all’estero, che, in generale, abbiamo veramente fatto una brutta figura».
Penso proprio a quella fase: Totti e Del Piero, prima Baggio e Zola. Possibile che la fabbrica dell’estro e del talento abbia chiuso i battenti?
«Oggi si cerca tantissimo la fisicità e questo non aiuta chi ha talento. Nel calcio se non hai qualità fisiche ti specializzi in qualcos’altro. È la legge della sopravvivenza. Nessuno di noi era fisicamente prorompente. Anzi. Noi ci specializzavamo in fantasia e tecnica. Imparavamo a casa, all’oratorio, nel campetto del quartiere, a scuola. Io durante la ricreazione mica facevo merenda, giocavo a pallone, solo a pallone. Mi sono anche sfasciato la testa, contro un cestino. E d’estate inseguivamo il pallone sulla sabbia, al mare. Si aspettava il tramonto e che arrivasse la bassa marea per giocare sul bagnasciuga. Ci sfondavamo i piedi, perché il pallone si appesantiva con l’acqua e la sabbia. Ma è proprio così che abbiamo imparato a essere numeri dieci».
C’è un giorno della tua vita da calciatore che vorresti rivivere?
«Il 9 luglio 2006, quando vincemmo i mondiali. Ho tutto dentro, di quel giorno. Come fai a spiegare la completezza sportiva, emozionale, persino spirituale che vive in quel momento un ragazzo che ha passato tutta la vita con quel sogno, che ha vissuto il calcio come una passione che ha occupato ogni momento, che non ha pensato ad altro per anni e, alla fine, riesce a farcela? Farcela con quella semifinale, con quei rigori che se li sbagliavi precipitavi in un incubo... È una bellezza totale, quella che ho vissuto in quel momento. Una piena, integrale bellezza. Inspiegabile, irripetibile».
E quello che non vorresti rivivere?
«L’8 novembre 1998, il giorno dell’infortunio. È stato terribile. Fermo un anno, quando ne avevo ventiquattro, con l’ansia e l’incertezza del recupero. Però ho scoperto una forza d’animo che non conoscevo, una capacità di sofferenza e di reazione che mi ha consentito di trarre il meglio anche da quel dramma».
Mi parli di tuo padre?
«Mio padre era un leader silenzioso. Crescendo, diventando a mia volta padre, ho capito tante cose in più di lui. Io l’ho vissuto poco, a tredici anni sono andato via di casa. In quel momento pensi ad altro, sei in crescita. Non riuscivo a dare il giusto peso ai miei, ma poi riesci a renderti conto della loro importanza e questo ti consente di avere con loro un rapporto bello, come è giusto che sia. Mio padre faceva l’elettricista, mia madre prima la colf e poi la baby sitter. Era una persona di un’umiltà pazzesca, si rimboccava le maniche, si spezzava la schiena per far star bene la sua famiglia.
Papà non parlava tanto, ma ricordo quando incontrai lui e mamma dopo che avevamo vinto la Champions. Penso che in quei momenti loro due abbiano rivisto tutto il nostro percorso di vita, tutte le paura e i sacrifici vissuti.
Avevano le lacrime agli occhi.
Erano orgogliosi non di Del Piero, ma del loro Alessandro».