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 2023  ottobre 19 Giovedì calendario

Dago racconta il suo documentario

«Stavo vedendo la magnifica serie su Fran Lebowitz. Martin Scorsese le chiedeva perché tutti perdevano la testa per vivere in una città infernale come New York: “Perché solo qui i gay possono scopare liberamente”.Cosa che è successa anche a Roma.Tanti, da Tennessee Williams a Gore Vidal, hanno vissuto qui pur avendo Hollywood o Manhattan. Anche secoli prima: Goethe, Stendhal, Freud, Gogol…Perché è davvero una città puttana, amorale, incivile, che ha visto tutto e se ne frega di tutti. Un luogo da degradare a luogo comune: è un binario morto, un bel paio di manette, una polpetta avvelenata, un bordello del pensiero, un pascolo di mostri, un imbuto di demenza collettiva. Chateaubriand scrisse: “È bella Roma per dimenticare tutto, disprezzare tutto, e morire”».Roberto D’Agostino racconta com’è venuta l’idea di un film sulla sua città. Girato da Daniele Ciprì con la complicità di Marco Giusti, Roma santa e dannata debutta il 27 alla Festa di Roma e poi in sala il 5 novembre. «In quel titolo c’è il recupero dello spirito dissacrante dell’immenso Gioacchino Belli», spiega. «Nei suoi sonetti il poeta, che come funzionario del Vaticano la sapeva lunga, commisurava senza pietà la distanza siderale tra i princìpi della Città di Dio e la pratica della Città dell’Uomo: “Caput mundi e chiavica der monno”».Lei e Giusti apparite come Virgilio e Dante, in giro di notte tra i ruderi dell’Urbe.«Roma è una “selva oscura” che, vista dal buco della serratura, si è indecisi se chiamare i carabinieri o gli infermieri. Manca una sola cosa, mettere all’ingresso del Grande Raccordo Anulare l’iscrizione che Dante mette sulle porte dell’Inferno: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Malgrado monnezza e traffico, ciarle e ciarlatani, alla fine anche i non-romani ricadono nel peccato: Roma è un vizio. Però la nostra idea non era di fare teorie sull’enigma capitolino ma solo di raccontare. E ho chiamato un po’ di amici amanti della conversazione: Verdone, Ceccherini, Vladimir Luxuria, Enrico Vanzina, Carmelo Di Ianni, Vera Gemma, Giorgio Assumma. Ognuno racconta un pezzo di Roma...».Cosa non ha potuto inserire?«Dado Ruspoli, che non c’è più. Mi raccontò la vera dolce vita fatta non dalle star del cinema ma dall’aristocrazia nera, papalina. E quirientra il Vaticano. Roma era e resta la Città di Dio ancora più che la Capitale d’Italia. Il colonnato del Bernini a piazza San Pietro sono due braccia aperte che accolgono le pecorelle smarrite. L’unico divo di Roma rimane il Papa, tutti gli altri finiscono a pernacchie. Karol Wojtyla fu uno shock, teologicamente conservatore ma mediaticamente modernissimo: Ursus diQuo vadis?più la televisione. Una sera uscì in clergyman con il segretario polacco: famose ’na pizza e ’na birra a Trastevere. Tornando le guardie svizzere non lo riconobbero. Brillo, cercò aiuto al commissariato di Borgo Pio, dove un piantone gli fa: “Ma come, sei il Papa e nun c’hai manco le chiavi de casa? Ahò, ma che Papa sei!”».Puro Alberto Sordi.«Sordi ha incarnato in maniera naturale lo stesso disincanto di Plauto, Petronio, Giovenale e Marziale. Il suo racconto della cena acasa Gianni Agnelli è irresistibile. Ma la frase più formidabile la disse la Magnani al Jackie O’: “È finito tutto, sono andata al cesso e ci ho trovato la regina d’Egitto!”».Nel film gli accenni autobiografici sono pochi.«La protagonista è Roma, io e Giusti siamo solo conduttori di storie. E che storie. I celebrati salotti degli anni Ottanta erano luoghi di tortura. Dario Bellezza cominciava a parlare di un libro inesistente come di un capolavoro, citando una sublime pagina sulla sodomizzazione del protagonista, poi Moravia, con quella bocca che sembrava la fessura di un bancomat, diceva al nuovo arrivato: “E lei che ne pensa?”, e il malcapitato si sentiva costretto a balbettare che si trattava di un libro pazzesco, divino, post-proustiano.... E giù, a ridere. Era uno sberleffo continuo».Le altre esperienze al cinema?«All’inizio degli anni Ottanta ho lavorato molto col produttore Augusto Caminito, sulle sceneggiature di tanti film di cassetta per Fininvest. Ho diretto Mutande pazze,ma per caso. Mi chiesero di scrivere un soggetto per far lavorare tutte le amanti del giro di Berlusconi e Cecchi Gori, dopodiché non riuscivano a trovare un regista che si mettesse a dirigere il “canile”. Mi offrirono una cifra esagerata ma accettai solo quando mi misero accanto un professionista, che fu addirittura Alfio Contini, il direttore della fotografia di Antonioni. Tra l’altro, con quel titolo ammiccante, il film andò pure bene».E “Dagospia” come arriva?«All’inizio doveva essere una sorta di diario digitale che raccontava il costume di casa, tra pettegolezzi e maldicenze, con Fruttero & Lucentini numi tutelari: “Tagliare i panni addosso agli altri è forse l’ultima trincea del libero pensiero”.Frequentavo i salotti e i ristoranti romani e mi chiedevo perché quelle storie pazzesche non arrivassero sui giornali. Così ho detto: adesso mi diverto io, raccontiamo un po’».Roma città eterna: un altro luogo comune?«No, quello è vero. Roma è eterna perché davanti alla Fornarina di Raffaello, al Mosè di Michelangelo o alla cupola del Pantheon, senti che quelli sono molto più vivi di te.Quando noi saremo polvere, i quadri del Caravaggio a S. Luigi dei Francesi o la Cappella Sistina saranno sempre contemporanei. Una volta a Stendhal chiesero a che serve il Colosseo, lui rispose: a far battere il cuore. È la migliore spiegazione di cosa sia l’arte».