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 2023  ottobre 19 Giovedì calendario

Intervista a Marco Mancini

La domanda ce la siamo posta tutti, ma per lui è solo un punto di partenza: «Come è possibile che il Servizio segreto israeliano non abbia intercettato una conversazione fra i terroristi di Hamas che parlavamo dell’imminente blitz in Israele?» Marco Mancini, uno dei più celebri 007 della nostra storia recente, va oltre: «Ci sono terroristi che sono stati mandati nel passato in Europa per colpire e sono fermi da anni. Si spacciano per profughi ma profughi non sono. L’Isis ha subito colpi durissimi, ma questi criminali si muovono indipendentemente dalla casa madre, come a Bruxelles. C’è un allentamento delle intelligence che è molto preoccupante. Qualcuno pensa che l’intelligenza artificiale possa sostituire il fattore umano, ma non è così». Mancini, oggi in pensione, ha scritto un libro, «Le regole del gioco», Rizzoli, che è il racconto di alcune pagine drammatiche della nostra storia, con contorno di misteri e polemiche politiche: si parte dalla Brigate rosse si arriva dritti fino all’incontro all’autogrill di Fiano Romano con l’ex premier Matteo Renzi, passando per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena e il sequestro di Abu Omar.
Oggi, con il fondamentalismo ancora in prima pagina, Abu Omar torna attuale.
«E nessuno che ricordi: questo signore ha una condanna a sette anni ed è latitante».
Ma voi l’avevate sequestrato?
«Forse c’è in giro un’idea degli agenti segreti come di persone pronte a commettere qualsiasi reato. Come se noi l’avessimo prelevato, incatenato e portato al Cairo in manette. Ma figurarsi».
Quale è la verità, la sua almeno?
«Gli imputati del Sismi, fra cui il sottoscritto, non hanno mai visto Abu Omar».
Però vi avevano arrestato.
«Sono stato prosciolto».
Ma lei quando è stato sentito non ha opposto il segreto di Stato?
«Sì, ma il segreto di Stato non è una specie di scudo penale che copre qualunque nefandezza. Qui otto presidenti del Consiglio hanno apposto il segreto».
Così l’hanno tolta dall’imbarazzo?
«Al contrario. Io avrei preferito rispondere nel merito, il segreto è una tortura, una prigione, un pessimo biglietto da visita per l’opinione pubblica. E invece io ho fatto solo il mio dovere».
Come per la liberazione della giornalista del «Manifesto» Giuliana Sgrena, vittima di un rapimento in Irak nel 2005.
«Ricevo una telefonata: Corri a Palazzo Chigi, ti aspettano, hanno ucciso Calipari. Calipari era un collega e un amico, chiedo cosa sia successo, mi spiegano che era in Irak ed è morto ad un posto di blocco».
La Sgrena?
«Era rimasta ferita e si trovava in ospedale. Non è semplice muoversi in zone di guerra, specialmente in aereo di notte, ma mi organizzo. Berlusconi mi incoraggia: Se c’è da chiamare Condoleezza Rice, pensaci tu, per Bush provvedo io. Per fortuna ce l’abbiamo fatta».
A Beirut lei sventò un attentato terrificante.
«Sarebbe stato l’11 settembre dell’Italia: c’erano 390 chili di esplosivo nelle mani di un pericolosissimo terrorista. Sarebbe stata un’ecatombe, per fortuna sono arrivato prima io. Del resto l’agente segreto non indaga su quello che è successo, ma su quello che potrebbe accadere. Ecco, è quello che ho fatto per tutta la vita. Poi, talvolta, ci è andata male: a Nassirya le nostre antenne non hanno captato quel che si stava preparando e purtroppo c’è stato una massacro spaventoso».
Lei ha cominciato con i reparti speciali del generale Dalla Chiesa.
«Sì, davamo la caccia ai brigatisti. In particolare io ero concentrato sulla colonna milanese Walter Alasia, responsabile di una serie impressionante di efferati omicidi».
Nel blitz di Cinisello Balsamo rischiò due volte la vita in pochi minuti.
«Siamo davanti alla porta di ingresso quando sento una bruciatura sul giubbotto antiproiettile. Mi giro e capisco: a uno di noi nella foga snervante dell’attesa è partito un colpo».
Poi?
«Entriamo nell’appartamento e vado dritto verso una stanza. All’interno c’è una donna: non la riconosco ma scorgo il tritolo sul comò, e poi due kalashnikov, 14 pistole, bombe e mitra. Mentre osservo sbalordito quell’arsenale lei infila la mano in un cassetto per spararmi. In una frazione di secondo le sono addosso e le punto alla gola il mio BerettaM12. Sono salvo, Ettorina Zaccheo, infermiera e responsabile della Brigata ospedalieri, si dichiara prigioniera politica».
Quarant’anni di successi e fatti tragici, poi a Natale 2020 l’incontro con Renzi all’autogrill di Fiano Romano. È quella la fine della sua carriera?
«Avrei avuto ancora quattro o cinque anni di carriera, ma il 23 dicembre 2020 vado all’autogrill a fare gli auguri all’ex premier e gli portò in dono i wafer. Una professoressa che casualmente è lì, filma il meeting, manco fosse una riunione carbonara. Poi il video arriva a Report e mi mettono in croce, Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che aveva speso parole di elogio per me, mi scarica in fretta. E io mi ritrovo in pensione».