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 2023  ottobre 19 Giovedì calendario

Com’erano gli scrittori da piccoli

Cosa c’è stato prima dei libri che hanno scritto, prima di scoprire la loro natura, prima ancora di saper scrivere? Come hanno cominciato a guardare il (e al) mondo? Un percorso ideale e controcorrente nella migliore letteratura del Novecento costellato di genti, lingue, paesaggi, misteri e ricordi. È un libro denso, delizioso e infinitamente suggestivo Ritratto dell’artista da piccolo. Undici infanzie di scrittrici e scrittori, in libreria da martedì con Utet.
L’autrice, Marta Barone, mette subito in chiaro le sue intenzioni: non va alla ricerca di fatti inaugurali e aurorali che spiegherebbero – col senno di poi – tutta la parabola adulta dell’intellettuale di turno. Nessuna caccia al tesoro di pietre filosofali dislocate in un’esotica età pre-puberale. Questa vuole essere, piuttosto, una collezione di ritratti e racconti atmosferici, pennellate miscelate d’arte e vita. Epifanie e flashforward, bagliori e disillusioni, tracce di carattere e riverberi del destino. “Qualcosa di simile al cercare dentro a un viso di ragazzino di un secolo fa un’eco, segni sparpagliati della personalità a venire”.
L’idea le è balenata raccogliendo diverse fotografie d’epoca. E quasi tutti i poeti e romanzieri evocati “hanno scritto della loro infanzia in modo più o meno autobiografico”. Ecco Marguerite Yourcenar immortalata bucolicamente tra le pecore. L’essere che chiamo io vede la luce “un certo lunedì 8 giugno 1903, verso le otto del mattino, a Bruxelles”. Orfana di madre, è il padre “girovago e dissipatore” a instradarla sulla via della cultura. È ancora bambina quando si installano a Parigi, piena di musei, “l’inizio del grande sogno della storia, cioè il mondo di tutti i vivi del passato”. Prende a leggere a perdifiato, “è la nascita della sua immaginazione”.
Esterno giorno. “La foto di una ragazzina in barca, in un luminoso bianco e nero. Potrebbe avere undici, forse dodici anni. Ha il sole dritto in viso e gli occhi un po’ stretti per la luce, la grande luce, e sorride… La barca è in un lago, e dietro di lei si vedono le montagne, le nuvole che fuggono in diagonale”. Siamo nel crepuscolo degli anni Trenta, nella Carinzia sublimata di Ingeborg Bachmann, scomparsa giusto 50 anni fa. Il nazismo è alle porte, tempo “senza sguardo al futuro né al passato, tempo della festa delle zucche, di spiriti e di terrori senza fine”. Nel 1944 scrive che non vuole più andare nel bunker, preferisce starsene in giardino a leggere. “Ha Il libro d’ore di Rilke tutto consumato, e Baudelaire. Morire, almeno in giardino, almeno al sole”.
Primo piano sulla mela cotta nel tubo della stufa a carbone che aspetta il risveglio di Walter Benjamin, nella Berlino imperiale di fine Ottocento. “Nell’oscuro Paese del calore della stufa, da cui la mela aveva assorbito l’aroma di tutte le cose che il giorno mi teneva in serbo”. Da grande, nei pochi decenni che gli restano da vivere, prova una nostalgia bruciante per l’alfabetario, presagio del suo avvenire e quintessenza dell’intera “infanzia, nel gesto con cui la mano inseriva le lettere nel listello per allinearle e formare parole”.
Molto più austero e sprezzante è Vladimir Nabokov, che già a un anno – “con la vestina lunga bianca, assiso su un seggiolino per mangiare, il piccolo pugno appoggiato sul tavolo” – ha “l’aria severissima e giudicante” del nobile russo.
Più a sud, a Rustschuk, antica città portuale sul basso Danubio, in Bulgaria, nasce nel 1905 Elias Canetti, che scriverà: “Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk”. Il suo primissimo libro è Le mille e una notte, quando la famiglia si trasferisce in Inghilterra. Ne seguono a profusione e non ha nemmeno compiuto 7 anni. Glieli regala il padre: l’ultimo è su Napoleone, dal punto di vista inglese. Elias lo sta ancora leggendo quando il papà muore all’improvviso. “Per me è rimasto una vittima di Napoleone, di tutte la più grande, la più atroce”.
Ecco la Czernowitz di Gregor von Rezzori, che non esiste più, o Virginia Woolf e la sorella a domandarsi sotto il tavolo se i gatti neri abbiano o meno la coda. Ed ecco la Libia remota di Anna Maria Ortese, dove “si vedevano uomini e donne vestiti con bellissimi manti celesti, gialli, rosei, bianchi”. È il 1925 e dintorni: Tripoli sembra un evo felice, “la città meravigliosa e semivuota, il molo, le sere nelle strade con i lumi a petrolio dietro le finestre che mandano una luce rossa, fumosa”. E poi “le notti profonde, i silenzi”. L’approdo a Napoli dove, deambulando senza requie, inizia a coltivare i suoi interessi. “Un certo giorno mi guardai intorno, e vidi che anche il mondo nasceva; nascevano montagne, acque, nuvole, livide figure”. Quella voglia incipiente di “fermare da qualche parte l’espressione fluente del vivere”. Altra scena madre: Anna Maria, 13 anni, “entra in un museo, per caso, una mattina. Vede un piccolo quadro di Raffaello; tutti gli altri quadri li dimenticherà, non quello”. Rappresenta un cielo. “Quel cielo capovolgeva ogni idea che avevo sulla realtà, era più vero e reale di ogni cielo del mondo reale”. Un evento straordinario. “Nel pozzo interiore vi era un bollore fragile e però continuo, si udivano suoni, marciavano apparizioni, galoppavano speranze indicibili”. Si sentiva la gioia, il furore del mare di un’anima nascente.