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 2023  ottobre 19 Giovedì calendario

Mappa delle isole immaginarie e non

Quando, nel 1902, James Matthew Barrie ideava Peter Pan – inizialmente al centro d’un’ampia digressione nel suo The Little White Bird, prima d’assurgere a protagonista, due anni dopo, della celebre pièce teatrale Peter Pan, or, the Boy Who Wouldn’t Grow Up (ripubblicata nel 1911 in forma di romanzo col titolo Peter and Wendy) e, nel 1906, del suo Peter Pan in Kensington Gardens
– non immaginava certo quale fortuna avrebbe avuto l’isola immaginaria da lui tanto mirabilmente tratteggiata. Com’è noto, l’idea era sorta dalla frequentazione di cinque bambini, i fratelli Llewelyn Davies, conosciuti nel 1897 nel corso d’una passeggiata londinese nei giardini di Kensington. Entrato in confidenza con la loro madre, Sylvia, Barrie aveva trascorso assieme a loro l’estate del 1901 presso il Black Lake Cottage di Farnham, nel Surrey, organizzando giochi e avventure, documentati in un volumetto corredato di fotografie stampato in due sole copie, The Boy Castaways of Black Lake Island.
Neverland sorgeva così: come isola selvaggia e misteriosa, abitata da pirati e pellirosse, coccodrilli e bestie feroci, situata vicino alle stelle della Via Lattea, raggiungibile allo spuntar del sole. Gli autori del celebre lungometraggio prodotto da Walt Disney, uscito nel 1953, avrebbero aggiunto un’indicazione ulteriore: quella «seconda stella a destra» ripresa da Edoardo Bennato in una delle sue canzoni più apprezzate (di certo, non una “canzonetta”). Al di là delle implicazioni sociali e psicologiche da cui la vicenda dei lost boys era scaturita, su cui si è discusso molto – fra illazioni e polemiche, as usual –, ciò che Barrie avrebbe lasciato, se si esclude l’idea d’un’eterna, utopica (e, forse, inumana) età dell’innocenza, capace di preservare dalle storture del mondo, non sarebbe stato che il sogno – o, se si vuole, l’illusione – del luogo isolato e circoscritto, irreale ma concreto: d’un mondo “altro”, insomma, in cui l’impossibile diventava praticabile. D’un “Altrove” definito ma lontano, fuori dello spazio e del tempo – dunque, rassicurante ma sufficientemente immaginifico –, in cui collocare ogni parto della fantasia.
Si badi: che tale luogo corrisponda a un’isola non è affatto scontato. Siamo di fronte a uno degli spazi più frequentati dall’immaginazione, associato, sovente, a una certa sfuggevolezza. Un fatto inconsueto, se si tiene conto della limitatezza imposta dalla stessa “insularità”, e, dunque, della plausibilità d’una sua completa conoscibilità. Eppure, la natura metaforica, misteriosa della terra isolata non ha mancato di solleticare la fantasia, contribuendo a situarvi le maggiori stranezze, le aspirazioni più astruse. Luogo utopico per eccellenza – edenico o infernale, a seconda dei punti di vista –, spazio delimitato per definizione, pertanto potenzialmente controllabile, l’isola ha mantenuto, a lungo, il suo potere di fascinazione. Basti pensare, per rimanere nella terra di Barrie (non a caso, isola essa stessa), a Utopia di Thomas More, edito nel 1516: un’isola ideale, capace d’esprimere il sogno rinascimentale d’una società pacifica; ovvero, all’isola di La Tempesta di William Shakespeare, pubblicato nel 1611, strumento di salvezza nel naufragio della vita. Ma si pensi, altresì, a Bensalem, l’isola di La nuova Atlantide di Francis Bacon, del 1627, collocata nei mari del Sud, nel nome della quale convivono sia “Bethlehem”, sia “Jerusalem”; all’isola deserta del Robinson Crusoe di Daniel Defoe, del 1719, luogo ameno di cui prendere possesso (a giustificazione di quanto realmente andava accadendo nei mari del globo); o alle molte isole di I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, del 1726, rappresentanti l’infinita diversità delle comunità umane. In tutti i casi, siamo di fronte a terre particolari, situate dentro o fuori il Mediterraneo, ovvero in un orizzonte onirico: concreto ma difficilmente raggiungibile. Ora, che la letteratura inglese abbia favoleggiato d’isole di vario tipo è qualcosa di naturale, vista la conformazione geografica del paese. Ciò non significa, a ogni modo, che il Mediterraneo sia rimasto silente. Da questo punto di vista, i lunghi secoli del Medioevo costituiscono un momento importante per la formazione d’un immaginario strettamente legato all’insularità. La storia delle esplorazioni e delle scoperte geografiche è costellata d’isole: scoperte, perdute, riscoperte. Semplici scogli, atolli, brandelli di terra emergenti dal mare, ampi agglomerati, veri e propri continenti: tutto ciò ha lungamente affascinato viaggiatori e letterati, generalmente propensi a ritenere autentica la loro esistenza. Cristoforo Colombo afferma d’averne incontrate 1.400, secondo una lettera di papa Alessandro VI; 1.700, stando, invece, a un messaggio inviato ai reali iberici. Numeri, questi, assai inferiori rispetto a quelli contemplati per l’oceano Indiano da Marco Polo: ben 12.700. Il racconto della scoperta del mondo somiglia a un dialogo fra mito e realtà. Fra tali poli sussiste un continuo andirivieni: il mito suscita curiosità, stimolando l’impresa; la realtà alimenta il mito, incoraggiando l’affabulazione.
Nell’approcciare tali aspetti, un problema si affaccia prepotentemente: quello del rapporto fra «ciò che si crede di trovare» – e che, dunque, ci si mette a cercare – e «ciò che viene trovato», costringendo a rivedere le proprie convinzioni. Nel mezzo, un progressivo processo di razionalizzazione del reale, capace di relegare il senso del mistero – o, se si vuole, del Mistero –, intrinsecamente legato alla percezione dell’ignoto, in un “Altrove” pienamente metafisico. È tale processo a essere indagato in questo libro. Nel corso del millennio medievale, la Cristianità europea s’è spinta più volte, insistentemente, alla ricerca di quelle isole di cui si vociferava da tempo, collocate generalmente oltre le Colonne d’Ercole, alimentando quel graduale “disincanto del mondo”, strettamente legato alla verifica materiale di quanto immaginato, che la traghetterà nella Modernità (che non è sinonimo d’Età moderna). E ciò, senza perdere, mai, né il senso della trascendenza, né il desiderio di guardare oltre. È con la conoscenza del mondo – questa, la tesi di fondo – che il “totalmente Altro” diventa effettivamente tale. In tale dinamismo, le isole occupano un posto peculiare: la loro ricerca spinge verso l’ideazione e la realizzazione di molteplici “viaggi di scoperta”, traghettando l’uomo medievale verso quell’Umanesimo che, complice l’apertura degli oceani, avrebbe visto tramutare in realtà la sostanza dei propri sogni.