Corriere della Sera, 18 ottobre 2023
Sulle sconfitte
Siamo abituati a prendere in considerazione la sconfitta solo in ambito sportivo. Con una piccola eccezione per la politica, in occasione delle elezioni, ma anche in questo caso si tratta di una competizione. È una visione consolante e pericolosa, perché ci offre la possibilità di ignorare le nostre infinite sconfitte personali, culturali, relazionali, con cui è difficile fare i conti.
Per fortuna gli sportivi ci aiutano con le loro esperienze. Fino a domenica scorsa a Castelfranco Emilia (Modena) si è svolta la terza edizione di «Sfide – Festival della Sconfitta», allo scopo – spiegano gli organizzatori – di «attraversare insieme la paura di perdere, al fine di guardare ciò che è andato storto e farne strumento di rilancio personale, collettivo e territoriale». A Trento, al Festival dello Sport, un campione come Roberto Baggio, protagonista di infinite vittorie, è tornato a parlare di quel calcio di rigore maledetto a Usa ’94 che comportò la sconfitta dell’Italia in finale contro il Brasile: «Pasadena? Non mi abbandonerà mai, ma ho imparato a conviverci. Il calcio mi ha insegnato che non bisogna mai mollare nella vita, le sconfitte se le sappiamo cogliere diventano il trampolino per lanciarsi». Forse vale la pena fare tesoro di queste testimonianze. Siamo un Paese che non fa eccezione: la sconfitta non è prevista dal sentimento prevalente, dalla pubblicità, dai modelli che devono essere tutti giovani, belli e «vincenti». Un secolo fa, trovammo in Caporetto il nome al disastro del 1917 e alla sindrome della sconfitta. In fondo ci costava poco: è in Slovenia, si chiama Kobarid e anche quando l’avevamo conquistata nel 1915 erano tutti sloveni. È un po’ una nostra capacità, la sconfitta ci somiglia troppo e non ci piace: «Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore». (No, non l’ha detto Ennio Flaiano, ma il critico musicale Bruno Barilli e quando Flaiano la cita, correttamente gliela attribuisce. E anche questo per noi è faticosissimo).