Corriere della Sera, 18 ottobre 2023
Intervista a Claudio Bisio
Sulla carta d’identità c’è scritto che è nato a Novi Ligure, ma Claudio Bisio a tre mesi era già a Milano. «Un attore che definire calvo è riduttivo» (la battuta, geniale, è di Rocco Tanica), perché ha saputo avere successo – caso abbastanza raro – al cinema, in teatro e in televisione con titoli che sono entrati nell’immaginario collettivo, da Mediterraneo a Benvenuti al Sud, da Zelig a Mai dire gol. Mamma maestra elementare, papà rappresentante di essenze per fare liquori, il destino d’attore «nonostante sia tutt’altro che figlio d’arte».
Gavetta al Derby, il locale del cabaret milanese.
«Era ben diverso dallo Zelig: era il locale notturno della mala, il pubblico era fatto di gente che arrivava dalle corse dei cavalli, maîtresse e biscazzieri; io sono arrivato nell’ultimo periodo, a cavallo degli anni 80, con l’ultima generazione di comici, Faletti, Salvi, Paolo Rossi, Iacchetti. Era una fatica vera, iniziavano alle 11 di sera e si andava avanti fino alle 2 di notte e oltre, quando arrivava una fauna strana. Mi chiedevo dove era stata questa gente fino alle 2, ma era meglio che non mi rispondessi».
Era in coppia con Antonio Catania.
«Facevamo cose improbabili e improvvisate. Poi siccome eravamo neofiti, i vecchi ci fregavano. Ci facevano aprire il venerdì o il sabato alle 11, quando ancora non c’era nessuno. Andavamo a lamentarci e allora ci dicevano: dai martedì chiudete voi, ma era uguale, perché a quell’ora durante la settimana c’era poca gente. È stata una bella scuola, difficile far ridere in quella situazione, spesso con gente di spalle, perché mangiavano e non ti davano retta».
La serata peggiore?
«Discutevo con Paolo Rossi perché io sostenevo l’idea che quando fai cabaret devi andare senza testo, senza rete: devi solo improvvisare. Lo teorizzavo ed ero così folle da metterlo in pratica. Ne venivano fuori serate stupende, strepitose (me lo dico da solo) ma altre drammatiche, disastrose dove avrei voluto solo schiacciare un bottone e scomparire. Poteva essere il Derby, o lo Zelig (il locale), erano gli Anni 80. Vedi salire sul palco un pelatino sconosciuto: se non ti fa ridere è un disastro. Dopo un paio di serate veramente storte ho cambiato idea: almeno una traccia, un inizio e una fine li devi avere».
Il più bravo con cui ha lavorato?
«Il mio maestro a sua insaputa è stato Dario Fo, andavo di nascosto a vedere le sue prove. Lo conobbi quando avevo solo 15 anni, durante un’occupazione al Cremona, il liceo scientifico. Gli chiesi se poteva venire da noi a scuola, convinto dicesse di no. Invece anche se non mi conosceva rispose subito di sì. Praticamente ci fece Mistero Buffo nell’Aula Magna e io rimasi affascinato da quell’affabulazione, dai versi di Cielo d’Alcamo e di Cecco Angiolieri. In quel momento ebbi la folgorazione sulla via di Damasco; mi dissi: io voglio fare quella cosa lì, senza sapere bene cosa fosse. Decisi di prenderlo come modello e maestro, i miei spettacoli in fondo sono delle affabulazioni».
Paolo Rossi?
«Se Dario Fo è il papà, Paolo è il fratello maggiore, anche se lo sovrasto fisicamente... La cosa che mi ha sempre entusiasmato di lui è l’imprevedibilità, scatta sempre di lato, non sai mai indovinare da che parte vada: i suoi spettacoli sono veri a metà, racconta cose successe e altre inventate».
Il ricordo più vivido di «Mediterraneo»?
«Tantissimi. Non me ne voglia Gabriele (Salvatores), ma quella è stata una vacanza. Non c’erano alberghi e stavamo nelle case dei pescatori, io ero con Gigio Alberti e la mattina prima di iniziare le riprese andavamo a fare una nuotata lunghissima, bellissima, in quel mare spettacolare, poi tornavamo e trovavamo yogurt con miele, le uova all’occhio di bue. Finito di lavorare c’erano le partite di calcetto, e poi la sera i Mondiali».
Era l’anno di Italia 90...
«Non c’era nemmeno un televisore. Abbiamo fatto una colletta e mandato uno a Rodi – otto ore di traghetto – per compare un televisore in bianco e nero. Vedevamo le partite spostando ogni cinque minuti a mano l’antenna. Per me non esiste Schillaci, io lo chiamo ancora Schillazzi perché sentivamo il commento in greco. Eravamo un gruppo di amici che cazzeggiava e beveva ouzo. Ho dormito tre ore in due mesi. Bellissimo».
Di cosa si è pentito?
«Ho detto no a qualche film – non dirò quali – e poi mi sono mangiato le mani».
Boom al botteghino
«Quando mi proposero Benvenuti al Sud all’inizio dissi no, ho rischiato di non farlo...»
È vero che stavo perdendo anche «Benvenuti al Sud»?
«Ero reduce da una tournée lunga e volevo andare in vacanza, così dissi di no, che potevo girare, ma solo da settembre. Per fortuna spostarono le riprese se no mi sarei mangiato le mani fino all’avambraccio. Mi chiedo anche chissà chi l’avrebbe potuto fare al posto mio».
Cosa si risponde?
«Tanti, perché nessuno è insostituibile».
Adesso ha debuttato anche come regista...
«Sono un pazzo. Nel momento in cui uno può godersi 43 anni di carriera mi sono messo in un’impresa durata quattro anni e mezzo».
Il suo film (ora nelle sale) è «L’ultima volta che siamo stati bambini», tratto dal libro di Fabio Bartolomei. È la storia di tre bambini che decidono di partire in segreto per convincere i tedeschi a liberare il loro amico ebreo catturato nel rastrellamento del ghetto di Roma del 1943.
«Una storia di finzione dentro una realtà più che vera, una vicenda reale ma allo stesso tempo surreale. Mi ha affascinato l’idea di raccontare l’orrore senza mai mostrarlo, narrarlo attraverso lo sguardo disincantato e inconsapevole di tre bambini di nove anni. Il cuore di questo racconto è rappresentato dai bambini, dal loro agire, dalle loro parole e pensieri che imprimono alla storia un tono leggero e ironico. Buffo, malgrado tutto, perché in realtà loro sono serissimi».
Qual è la scommessa?
«Cercare leggerezza di racconto, di dialoghi e di recitazione in un contesto tragico. La strada è quella di Jojo Rabbit, Train de vie, La vita è bella... E poi mi ha sempre attratto raccontare il momento del superamento della linea d’ombra, quella fase in cui da adolescenti si diventa adulti».
Lei quando ha superato la linea d’ombra?
«Se dicessi che non l’ho mai superata? Continuo a fare cose bambinesche...».
Ha 66 anni, ma percepiti?
«16».
Il tempo che passa fa girare le scatole?
«Ci sono posti dove non posso più andare: come faccio ad andare alle Colonne di San Lorenzo a bere una birra? Mi scambiano per un vecchio guardone. Ma la cosa che più mi ha dato fastidio è successa qualche mese fa. Ero a Roma con mia figlia e siamo andati a vedere una mostra all’Ara Pacis. Alla cassa ci hanno detto che c’erano sconti per under 25 e per over 65. Io li avrei pagati quei due euro in più, ma mia figlia si è girata troppo velocemente verso di me... In un secondo ho scoperto che lei ormai era adulta e io un vecchio».