Corriere della Sera, 18 ottobre 2023
Intervista a Sayeret Matkal
Nella foto che tiene appesa alle spalle indossa la tuta da meccanico bianca, il travestimento usato per infiltrarsi sotto l’aereo della Sabena – volo 571 da Bruxelles a Israele – e attaccare con 16 uomini dell’unità speciale Sayeret Matkal gli attentatori palestinesi, liberare i 90 ostaggi. Agli ordini di Ehud Barak in quel pomeriggio del 1972 c’è anche Benjamin Netanyahu, che nell’autobiografia pubblicata pochi mesi fa accusa l’ex comandante di essersi preso il merito del successo anche se «il suo unico ruolo è stato rimanere sulla pista e soffiare in un fischietto».
In questi giorni drammatici, a 81 anni, il soldato più decorato della Storia d’Israele – è stato capo di Stato maggiore e ministro della Difesa fino a diventare premier battendo proprio Bibi in uno scontro diretto – non vuole rispondere a risentimenti rivangati dal passato o calcare sulle critiche al capo del governo, lo ha fatto per dieci mesi contestando dal palco delle manifestazioni «il golpe antidemocratico» portato avanti dalla coalizione al potere, mentre la destra gli ricordava la medaglia poco lusinghiera di «politico meno amato dagli israeliani». «Questo è il momento dell’unità – dice nell’appartamento in una delle zone più eleganti di Tel Aviv – perché abbiamo subito l’assalto più devastante da quando è nata la nazione. Netanyahu ha perso la fiducia della gente e dei soldati, i suoi stanno già manovrando perché in futuro possa tentare di negare le responsabilità. Per lui arriverà il giorno del giudizio, molto prima di quanto si pensi».
Il capo di Stato maggiore, quello dei servizi segreti interni, l’intelligence militare hanno chiesto scusa per il disastro di sabato scorso.
«È un fallimento senza precedenti a tutti i livelli. I vertici hanno coltivato per anni l’idea che Hamas potesse essere addomesticato. Netanyahu in particolare ha lasciato che il Qatar portasse milioni di dollari in contanti ai fondamentalisti. Sperava di tenerli buoni pagando tangenti e alla comunità internazionale ripeteva: vedete, come posso negoziare con Abu Mazen se controlla solo metà dei palestinesi? Intanto Hamas si rafforzava».
Lei è stato ministro della Difesa durante l’operazione Piombo Fuso, tra il 2008 e il 2009, e con lo Stato maggiore decise di tagliare la Striscia a metà, i carrarmati dispiegati da est fino al Mediterraneo, una delle incursioni di terra più massicce nei tanti scontri con Hamas.
«L’idea era di dividere Gaza in diversi settori per poter operare con le truppe dall’interno. Avevo bisogno di fermare i lanci di razzi e allo stesso tempo convincere l’Egitto a intervenire, a sostituirci sul campo. Ma Omar Suleiman, allora capo dei servizi segreti, mi mise un braccio sulla spalla e sorrise: ce l’avete tolta nel 1967, adesso ve la tenete. In realtà, ci eravamo ritirati da quattro anni, così ho proposto ad Abu Mazen di aiutarlo a riconquistare il controllo che Hamas gli aveva tolto con le armi: per lui era impensabile – e lo capisco – tornare nella Striscia portato sui tank israeliani».
Anche adesso viene ipotizzato l’intervento di una forza multinazionale araba.
L’Egitto e Abu Mazen
Volevo convincere l’Egitto a sostituirci sul campo... Omar Suleiman, allora capo dei servizi, mi mise un braccio sulla spalla e sorrise: ce l’avete tolta nel 1967, adesso ve la tenete. Allora ho proposto ad Abu Mazen di aiutarlo a riconqui-stare il controllo che Hamas gli aveva tolto con le armi: per lui era impensabile tornare nella Striscia sui tank israeliani
«Una forza internazionale deve riempire il vuoto per 4-5 mesi dopo che avremo eliminato Hamas. Fino alla possibilità di restaurare il potere dell’Autorità palestinese sulla Striscia».
Lei ripete spesso la massima del generale francese Charles de Gaulle: «Niente rafforza l’autorità quanto il silenzio». I generali e i politici stanno scegliendo le parole giuste, rimanendo zitti quand’è necessario?
«È un equilibrio fondamentale da trovare, mi sembra che i toni stiano cambiando dopo lo choc dei primi giorni, almeno nei comandi militari. Gli israeliani hanno bisogno di sentire che possono tornare a fidarsi, che possiamo di nuovo ritrovarci uniti – dopo mesi di divisioni politiche – dietro a leader che capiscono la situazione. Messaggi sobri, puliti».
Eppure tra i fedelissimi nel Likud di Netanyahu qualcuno continua a far politica come se il Paese fosse in campagna elettorale e non impegnato in una campagna militare. Urlano «traditori» ai famigliari degli ostaggi che chiedono conto, danno la colpa dell’invasione di undici giorni fa ai «disfattisti della sinistra».
«Quei “disfattisti” sono i riservisti, i soldati delle forze speciali, i piloti dell’aviazione che in poche ore hanno trasformato il movimento di protesta nella macchina degli aiuti per i militari al fronte e per le famiglie evacuate dai villaggi devastati a sud. Sono intervenuti nello scompiglio, nell’assenza iniziale del governo. E quelli che avevano minacciato di disertare l’addestramento per contestare il piano giustizia anti-democratico sono stati i primi a presentarsi in caserma dopo l’attacco».
Al governo proprio con Netanyahu, come ministro della Difesa ha spinto perché le forze armate investissero milioni di dollari nella preparazione di un possibile raid contro i centri nucleari iraniani per impedire che Teheran arrivasse a produrre la bomba atomica. Sabato il blitz ha colpito da molto più vicino.
«Quello sforzo non ha distolto l’attenzione dell’esercito dalle altre minacce. Ero convinto allora – e resto convinto – che i siti iraniani andassero bombardati, altri nella coalizione la pensavano diversamente ed erano la maggioranza. È stata questa minaccia credibile che ha spinto il presidente Barack Obama a negoziare l’intesa con l’Iran: ha ritardato lo sviluppo atomico e avrebbe potuto rinviarlo di 10 anni, se Netanyahu non avesse spinto Donald Trump a tirar fuori gli Stati Uniti dall’intesa».