MowMag, 17 ottobre 2023
La grande ipocrisia del sistema sulle scommesse
Parola d’ordine: ibridare. Creare un mix di registri diversi, far sfumare il confine fra cose distinte, mettere nel pastone l’elemento imbarazzante per far sì che se ne perda la specificità e lo si de-stigmatizzi. Numerose sono le vie che portano alla legittimazione della scommessa nella vita quotidiana e gran parte di queste vie intersecano il mondo dello sport. Che è il campo privilegiato del betting ma con esso intrattiene anche un rapporto complicato. Le cronache di questi giorni hanno riportato al centro dell’attenzione il tema delle relazioni pericolose fra calciatori e mondo delle scommesse, ciò che descrive una linea di continuità mai interrotta da quel 23 marzo 1980 (primo Calcioscommesse) in cui le gazzelle della polizia stazionavano sulla pista d’atletica dell’Olimpico di Roma e gli eroi delle nostre domeniche venivano portati via in manette. Nel frattempo è cambiato tutto, a partire dal fatto che le scommesse sportive sono state legalizzate (all’epoca erano fuorilegge), ma senza che ciò sia servito a evitare i rischi dell’illegalità né abbia concesso ai calciatori la libertà di scommettere sul calcio. E adesso è facile fare i moralisti, mettere alla gogna pubblica ragazzi che certamente hanno sbagliato ma per questo pagheranno, e pesantemente. Ma intanto che si sta a giudicare si evita di guardare l’elefante nella stanza: la mega-macchina della scommessa sportiva, che nemmeno dal Decreto Dignità (col suo divieto di pubblicizzare il gioco d’azzardo) è stata arrestata, continua a lavorare indisturbata. E lo fa grazie a quelle ibridazioni cui si è fatto cenno all’inizio: la costruzione di spazi e format che simulando il registro giornalistico compiono in realtà un lavoro di informazione commerciale. Senza che si sia riusciti a arginare il meccanismo, davanti al quale è stata invece mostrata grande arrendevolezza.
Nella stagione 2010-2011 il settore gestione giochi rappresentava il 20% dei main sponsor del club di Serie A. Oggi, nonostante il Decreto Dignità, la quasi totalità dei club della massima divisione ha in vigore partnership commerciali con aziende collegate al settore delle scommesse. Se allora erano “betting partner”, oggi le stesse si definiscono, generalmente, “infotainment partner” o “digital partner”, lasciando così intendere un posizionamento merceologico differente. Di cosa si tratta in realtà? Di siti e portali i cui nomi e layout grafici riportano direttamente ai più noti concessionari delle scommesse, ma che hanno domini di primo o secondo livello differenti e, al loro interno, non riportano né le quote né i link per puntare. Ospitano invece contenuti di vario tipo: articoli, statistiche, livescore, in certi casi concorsi con premi riferiti ai club che sponsorizzano, in altri podcast o format adatti alle piattaforme social. Articoli firmati o anonimi, volti notissimi e altri meno, ma in tutti i casi con un’avvertenza: daranno anche contenuti più o meno informativi – perché, l’ha chiarito l’Agcom, c’è differenza tra informazione e pubblicità, e proprio questo chiarimento ha reso il confine decisamente labile – ma nei disclaimer si segnala sempre che non si tratta di testate giornalistiche registrate. Cosa sono allora? Piccoli ingranaggi funzionali alle holding del settore, poche multinazionali (salvo qualche singolare e discussa eccezione) che controllano centinaia di marchi esplosi con lo sviluppo digitale, dei quali hanno fatto incetta e che, attraverso le società controllate, foraggiano anche queste non testate e chi per esse lavora.
Proprio a questo punto si presenta la questione più seria. Si utilizza un registro informativo ma si continua a parlare di scommesse. Si confeziona una simil-notizia ma intanto vengono date quote. Tutto ciò avviene anche nel corso dei contenitori d’informazione, condotti da giornalisti regolarmente iscritti all’albo che però si prestano a alimentare l’ambiguità. Sanno benissimo ciò che fanno, non mostrano imbarazzo a essere il veicolo di un’operazione di elusione. E mettono faccia e firma su un’operazione per la quale si può coniare un neologismo: newswashing. Che è la pratica di usare le notizie (o almeno qualcosa che vi somigli) per ripulire e abbellire un contenuto il cui vero nucleo sono le informazioni sul gioco d’azzardo. Il newswashing è il figlio primogenito del Decreto Dignità, che ha usato l’accetta laddove sarebbe stato necessario il bisturi. Ma a questo punto non si tratta nemmeno di chiedere una sua abolizione e il suo ritorno indietro (noi di MOW viviamo tranquilli sia in un ambiente di scommesse sdoganate che in un ambiente di scommesse malamente imbrigliate), quanto piuttosto di concentrarci proprio sull’elefante nella stanza: l’ipocrisia dei format ibridati, e i moralisti che in queste ore concionano contro scommesse e calciatori ma poi permettono che del loro stesso mestiere ci si faccia beffe. Chi è il loro vero editore?
I giornalisti professionisti non possono fare pubblicità remunerata: è scritto nelle carte deontologiche della professione: è vietato. I calciatori del settore professionistico non possono scommettere sul calcio: è scritto nei regolamenti federali: è vietato. Però vi sono giornalisti che, per quanto piuttosto coperti dal punto di vista formale, da quello sostanziale veicolano contenuti sulle community dei tipster, e non lo fanno a titolo gratuito o per puro spirito di divulgazione. Quanto ai calciatori, beh, dopo il ritiro – se non più tesserati Figc – sono uomini liberi di scommettere legalmente dove e quando pare a loro, ma vederne alcuni fare da compiacenti e compiaciuti testimonial proprio a quei siti certo non aiuta a scollegare due ambiti che dovrebbero restare separati. Tutt’altro.
Da mesi il ministro per lo Sport, Andrea Abodi, afferma di voler superare il Decreto Dignità parlando di “diritto alla pubblicità” per i concessionari legali, considerando il ritorno economico che lo Stato ricava dal gioco lecito. In realtà la pubblicità ancora oggi non manca, tra i cartelloni a bordocampo, i backdrop pubblicitari delle zone miste e i portali di cui sopra, pubblicizzati nella sezione relativa a partner e sponsor dei siti ufficiali delle varie pubblicità. Quegli stessi club che firmano certi accordi e che ora si dicono in prima linea per inserire i campioni che hanno problemi nei percorsi di uscita dalla ludopatia. E che se in genere faticano a concedere i propri giocatori alle richieste di interviste di diverse testate giornalistiche registrate, non hanno remore a farli dialogare all’interno di format creati per i social media dalle piattaforme che attuano il newswashing di cui sopra, format nei quali peraltro si percepisce chiaramente l’immanenza dei marchi dei concessionari. Che, però, formalmente non compaiono. Davvero allora è così stupefacente che qualche calciatore, oltre a pubblicizzarle magari senza accorgersene, essendo circondato da un ecosistema che le promuove, delle agenzie del betting diventi cliente prima e ludopatico poi?
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