Corriere della Sera, 17 ottobre 2023
La memoria perduta
Ottant’anni fa, in questi stessi giorni, gli italiani non si comportarono tutti allo stesso modo con i compatrioti ebrei, cui i nazisti davano la caccia. Alcuni italiani rischiarono la vita per proteggerli. Altri, per ideologia o per denaro, li vendettero. Un sacerdote bresciano, Giovanni Battista Montini, diede ordine ai seminari e ai conventi romani di nasconderli; preti e frati porsero ai perseguitati le loro tonache e i loro sai. Ma altri italiani fecero irruzione nei seminari e nei conventi, e costrinsero gli ebrei a recitare le preghiere cristiane.
Q ualcuno aveva imparato il Padre Nostro e l’Ave Maria; altri ebrei furono scoperti e portati a morire ad Auschwitz. «Un turpe sacrilegio» l’ha definito Andrea Riccardi, in risposta ai relativizzatori e ai contestualizzatori di professione. Perché contestualizzare bisogna sempre; ma ci sono crimini che nessun contesto può giustificare. Crimini che impongono, in ogni luogo e in ogni tempo, una condanna morale.
Siamo certi che questa condanna morale sia oggi unanime? Oppure la memoria della Shoah è come un vaccino che dopo tanto tempo non funziona più, perché gli anticorpi sono tutti morti? Da molti segni appare evidente che l’antisemitismo non è morto affatto. Che il pregiudizio e l’odio antiebraico sono più vivi che mai. Anche nel nostro Paese.
Intendiamoci: criticare il governo di Israele non significa essere antisemiti. Chi sostiene il contrario compie un ricatto morale inaccettabile. Netanyahu è criticato pure in patria, anche se più per la corruzione e la torsione allo Stato di diritto che per la sua politica verso i palestinesi. In realtà, Netanyahu non ha mai creduto nella pace. Vince le elezioni nel 1996, contro gli accordi di Oslo. Torna al potere dopo la malattia di Sharon e il crollo delle speranze, e ci resta prima assicurando che con lui non nascerà mai uno Stato palestinese, poi promettendo l’annessione della Cisgiordania. Il suo sostegno agli insediamenti ha aumentato la tensione. Però è anche vero che Netanyahu non ha mai scatenato una guerra, a differenza dei suoi predecessori laburisti e del successore di Sharon, Olmert, che nel 2006 intervenne in Libano, dove perse la vita Uri Grossman, il figlio di David, il grande scrittore. Semplicemente, Netanyahu si è illuso che la questione palestinese potesse essere rimossa.
Ma non prendiamoci in giro: coloro che sui social giustificano Hamas, quando non esultano apertamente per l’assassinio dei civili ebrei, sanno a malapena chi sia Netanyahu. Da tempo il conflitto israelo-palestinese è entrato nel cono d’ombra dell’opinione pubblica. Quasi nessuno tra coloro che oggi pontificano è mai stato in un kibbutz israeliano o in un campo profughi palestinese. Quasi nessuno ha mai parlato con una madre israeliana o palestinese che ha perso un figlio. Un sacerdote di Orbassano, Carlo Maria Martini, fondò un’associazione proprio per far incontrare i genitori delle vittime, affinché trovassero un senso al loro dolore. Ma agli odiatori tutto questo non importa. Non ne sanno nulla, il che sarebbe anche rimediabile; soprattutto, nulla ne vogliono sapere.
Quello che conta per loro, a parte il narcisismo da talk show o da social, è l’ideologia, e prima ancora l’istinto. Lo mettono anche per iscritto: se gli ebrei sono così odiati, sempre e dappertutto, un motivo ci sarà. Per gli odiatori, in Medio Oriente non ci sono due ragioni contrapposte, e neppure torti inflitti e subìti; c’è solo un nemico da detestare.
Ogni Paese fa storia a sé. In Francia, dove vive una comunità ebraica molto più ampia della nostra, ci sono stati attacchi a scuole, insegnanti, allievi ebrei. La Francia è il Paese del caso Dreyfus e del Vel d’Hiv, il Velodromo d’Inverno dove la polizia di Vichy chiuse gli ebrei parigini: e il responsabile, il collaborazionista René Bousquet, era uno dei migliori amici – mai rinnegato – del primo presidente socialista della Quinta Repubblica, François Mitterrand. Eppure è stato un tribunale francese a condannare Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, per aver definito le camere a gas «un dettaglio della storia». L’Inghilterra non ha una storia di antisemitismo se non marginale, molti ebrei francesi si rifugiarono oltre Manica, ma la sua politica estera è tradizionalmente filoaraba: gli arabi combatterono con gli inglesi durante la prima guerra mondiale, al tempo di Lawrence d’Arabia e Glubb Pascià; e fino al 1948 gli ebrei dell’Irgun e della banda Stern ammazzavano e addirittura impiccavano i soldati britannici. La Germania è divisa, anche a sinistra, tra chi come il cancelliere Scholz è consapevole della macchia incancellabile della Shoah, e chi come il penultimo cancelliere socialdemocratico Schröder sostiene che sia tempo di liberarsi dal senso di colpa; forse anche per questo la Germania ha per la prima volta un partito non anti-nazista al 20 per cento.
In America, nonostante la presenza di un’influente comunità ebraica, l’antisemitismo è esistito eccome, anche tra le élite, da Henry Ford a Joseph Kennedy, il padre di John e Bob. E l’altro giorno il comico Bill Maher ha twittato: «La buona notizia è che l’estrema sinistra e l’estrema destra hanno trovato un terreno comune; la cattiva è che entrambe odiano gli ebrei».
E l’Italia? Dall’antisemitismo noi ci autoassolviamo in nome della nostra asserita bontà: siamo, com’è noto, brava gente. Ed è vero che i nostri nonni vissero le leggi razziali come un’ingiustizia; tuttavia furono applicate. E mentre a Torino, la città meno fascista, Edgardo Sogno passeggiava sotto i portici di via Po con la stella gialla sul petto, gli studenti ebrei venivano cacciati dalle scuole, gli impiegati ebrei della Toro Assicurazioni ricevevano la lettera di licenziamento.
Oggi anche in Italia le estreme si saldano in una curiosa e inquietante alleanza rosso-bruna. Ma l’odio o almeno l’antipatia verso gli ebrei non sono soltanto un fatto ideologico, e neppure politico. Certo, Israele è l’avamposto a Est dell’Occidente, quindi siamo noi; e l’Occidente non ama se stesso. Ma il sentimento anti-ebraico non coincide solo con il sentimento anti-israeliano. Nasce prima e ne prescinde.
Perché molti nostri compatrioti odiano o comunque non amano gli ebrei? Perché gli ebrei sono «diversi»? Perché hanno un’identità talmente definita da sopravvivere a oltre tremila anni di storia e a tante persecuzioni?
Vale la pena ricordarlo: parlare di «razza ebraica» non è solo un abominio, è un errore. Molti ebrei vengono dal Sud Africa, dall’Etiopia, dallo Yemen, dall’Algeria, dalla Libia, dal Marocco; altri dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Russia. Ma l’ebraismo non è soltanto una religione o una cultura. Gli ebrei sono un popolo. Il popolo di Israele, come scrisse Primo Levi, entrava inerme nella camere a gas dei campi di sterminio; ma lo stesso popolo di Israele, come disse il maggiore Yosef Salat, sedeva nella cabina di pilotaggio della prima squadriglia che annientò al suolo l’aviazione egiziana, all’alba della guerra dei Sei Giorni. Nasser voleva distruggere Israele; ne fu distrutto. Il suo successore Sadat con Israele fece la pace, ottenne la restituzione del Sinai, fu ammazzato dagli estremisti islamici; proprio come Rabin, capo di Stato maggiore nella guerra del Kippur e premio Nobel per la pace, fu assassinato da un estremista israeliano.
Il popolo di Israele hanno provato a cancellarlo in ogni modo. Non ci è riuscito Nabucodonosor, non ci è riuscito Hitler; non ci riuscirà Hamas. Paragonare epoche diverse è sempre sbagliato: la storia non si ripete allo stesso modo. «Non ritorna mai più niente, e finalmente accetteremo il fatto come una vittoria» ha scritto Francesco De Gregori. Anche la Chiesa cattolica conosceva l’antigiudaismo; poi venne un prete bergamasco, Angelo Roncalli, a cancellarne ogni traccia. Dopo di lui divenne Papa con il nome di Paolo VI il sacerdote bresciano che aveva salvato centinaia di ebrei romani. E dopo Paolo VI venne Giovanni Paolo II, nato in Polonia – terra che pure conobbe l’antisemitismo e i pogrom —, che per primo visitò la sinagoga di Roma e definì gli ebrei «i nostri fratelli maggiori».