Corriere della Sera, 17 ottobre 2023
Biografia di Ismail Haniyeh
Il campo rifugiati Shati, spiaggia in arabo, si chiama così perché le case di cemento grigio, i piani aggiunti sbilenchi all’allargarsi delle famiglie, stanno a picco sulla costa, dalle rocce sgocciola in mare la fogna a cielo aperto. Quella che dovrebbe essere la strada d’ingresso principale è un vicolo sempre infangato che porta al palazzotto dove ha abitato Ismail Haniyeh. Le sbarre impediscono di arrivarci, anche se il capo di Hamas vive in Qatar ormai da un paio d’anni. Ha preso il posto ricoperto da Khaled Meshal e come lui cerca di controllare le dinamiche a volte conflittuali tra i leader dentro la Striscia – sotto i bombardamenti – e fuori a Doha, sotto i soffitti stuccati della capitale qatarina.
Sulla Spiaggia ci è nato 61 anni fa, il padre pescatore. Dopo le battaglie della prima intifada e la prigione, diventa assistente dello sceicco in carrozzella Ahmed Yassin, ucciso dagli israeliani nel marzo del 2004, il successore Abdel Aziz Rantissi dura un mese, un missile centra la sua auto. A quel punto i boss dell’organizzazione formano un triumvirato clandestino, meglio restare nascosti, i tre dovrebbero essere alla pari, in realtà lo guida Haniyeh ed è lui a essere il primo nome della lista che gli islamisti decidono di presentare alle elezioni parlamentari del 2006, Yasser Arafat è morto due anni prima. Stravincono: Haniyeh è capo del governo a Gaza, mentre l’Autorità palestinese fa capo al presidente Abu Mazen a Ramallah.
Abu Mazen non riesce a fargli riconoscere gli accordi stipulati con Israele, che siano quelli di pace a Oslo o il riconoscimento dello Stato ebraico. Così la maggior parte della comunità internazionale lo boicotta, resta vuota la mensola che aveva preparato nel suo ufficio per raccogliere le foto con i grandi del mondo, gli arriva una telefonata di congratulazioni da Bobo Craxi, allora sottosegretario agli Esteri, che va di traverso al resto dell’esecutivo italiano guidato da Romano Prodi.
Il presidente lo disconosce nel 2007 perché i paramilitari gli tolgono con le armi il dominio sui 363 chilometri quadrati stretti tra Israele, l’Egitto e il Mediterraneo. I miliziani estremisti entrano nel palazzo rosa del raìs, quartiere residenziale di Rimal, indossano le sue ciabatte, si siedono sul copriletto di seta, voltano le foto della moglie, sguardo al muro perché è una donna e loro sono tutti maschi.
Per i 2,3 milioni di palestinesi ammassati dentro casa Ismail è sempre stato un figlio di Shati – lui che di figli ne ha 13 – modesto e devoto, pronto a condividere con loro quel «sale e zaatar» come urlava agli israeliani durante i quasi due mesi di guerra tra luglio e agosto del 2014: «Ci basteranno a sopravvivere, non ci piegherete mai». I più sarcastici commentano che alla distanza agiata del Qatar con la varietà di maggiorana, Origanum Syriacum, ci può insaporire la carne di agnello. Quando nel 2017 sostituisce Meshal – per 21 anni al vertice – gli analisti si convincono che con lui l’organizzazione possa diventare più pragmatica, più interessata a governare Gaza che a disarcionare Israele dal Medio Oriente. Le stesse illusioni che si formano attorno a Yahia Sinwar, eletto nella posizione tenuta da Haniyeh di regnante sulla Striscia. Congetture triturate dalla mattanza di sabato scorso all’alba.
In questi giorni di guerra gli ufficiali israeliani hanno dichiarato che tutta la leadership di Hamas è «destinata a morire», bnei mavet suona la sentenza in ebraico. Avigdor Liberman, sul punto di diventare ministro della Difesa sotto Benjamin Netanyahu, aveva avvertito: «Quarantotto ore dopo aver ricevuto l’incarico darò l’ordine di uccidere Haniyeh». Era il 2016. Tre anni dopo – ormai ex alleato di Netanyahu e tra i suoi critici più caustici – aveva rivelato di aver presentato al consiglio di sicurezza «i piani dettagliati per eliminarlo ed è stato Bibi, in più di un’occasione, a opporsi». Quando Liberman si era dimesso, era stato proprio Haniyeh a provocarlo in un’intervista da Gaza: «Ho vinto io».