Avvenire, 17 ottobre 2023
Morandi, il cinema e l’arte dell’incontro
«Caro Professore, ho visto due giorni fa una sua mostra alla Medusa in via del Babbuino. Non è una grossa mostra ma è quanto basta per riceverne, a mio avviso, una forte impressione», scriveva da Roma, in una lettera datata 9 novembre 1955 e indirizzata a Bologna, il regista Michelangelo Antonioni al pittore Giorgio Morandi (al quale Milano dedica una mostra a Palazzo Reale che si può visitare fino al 24 febbraio 2024). Era stata un’effettiva folgorazione, quella ricevuta dal ferrarese Antonioni, all’epoca quarantatreenne, nel visitare la mostra inaugurata a fine ottobre nella galleria di via del Babuino (in romanesco si raddoppia la “b”) che presentava una selezione dei paesaggi e delle Nature morte di Morandi, di ventidue anni più anziano di lui. Quelle stesse opere, ritenute da alcuni “decadenti” o “polverose”, sarebbero diventate un vero e proprio manifesto esistenziale e poetico per il regista della Trilogia dell’incomunicabilità, composta agli inizi degli anni ’60.
«Di fronte ad una raccolta di suoi quadri – prosegue nella lettera, spiegando le ragioni di quell’istantaneo ammaliamento – si ha, a tutta prima, la sensazione che sia stata applicata alla perfezione la teoria jamesiana del punto di vista limitato».
Ne La notte (1961), secondo capitolo della trilogia insieme a L’avventura e
L’eclissi, una Natura morta morandiana di piccole dimensioni giganteggia solitaria sulla parete altrimenti spoglia alle spalle del protagonista, Marcello Mastroianni, che in diverse sequenze appare immobile, col capo reclinato, la recitazione distaccata e i movimenti essenziali rallentati. Il male di vivere moderno si riflette in forma simbolica nel piccolo quadro sulla parete bianca.
Non era comunque la prima volta che le opere del pittore bolognese apparivano in pellicole di registi importanti, italiani e non. A cominciare dal 1955, con il film noir tratto dal romanzo di Mickey Spillane e diretto negli Stati Uniti da Robert Aldrich: Un bacio e una pistola ( Kiss me deadly).
Cinque anni dopo, 1960, in una scena de La dolce vita di Federico Fellini avviene un sintomatico dialogo tra il protagonista Mastroianni e lo scrittore Enrico Steiner, perseguitato da un tragico destino e interpretato nel film da Alain Cuny. Quest’ultimo, davanti a una Natura morta di Morandi ingrandita oltremisura, spiega: «È il pittore che amo di più. Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno. Eppure sono dipinti con uno stacco, una precisione, un rigore che li rendono quasi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui nulla accade per caso». Una frase che secondo Mauro Aprile Zanetti, autore del saggio La natura morta de La dolce vita ( New York, 2008), è la chiave di lettura dell’intero capolavoro felliniano.
Sarà poi Il boom, diretto nel 1963 da Vittorio De Sica e scritto da Cesare Zavattini, con Alberto Sordi, a ospitare ancora sul set le opere dell’artista bolognese per sintetizzare il disagio sociale e le inquietudini del protagonista, un palazzinaro costretto a vendersi un occhio per sanare i propri debiti. Per giungere al 2009 con il film di Luca Guadagnino Io sono l’amore, incentrato su una famiglia della borghesia milanese e primo segmento della sua Trilogia del desiderio.
Ma il rapporto del pittore con il grande schermo non è stato affatto a senso unico, come descrive Carlo Zucchini nel suo agile volume di aneddoti e memorie personali Morandi, pittore. Una certa luce saturnina (Corraini). L’autore, classe 1932, maestro elementare proprio come Morandi e profondo conoscitore della sua arte, ha frequentato a lungo l’appartamento bolognese di via Fondazza 36 dove il pittore lavorava e viveva insieme alle tre sorelle. Un giorno, Zucchini gli confida la “forte impressione” ricevuta dal film di François Truffaut Les quatre cents coups, uscito nelle sale nel 1959. La replica di Morandi non si fa attendere: «Se ricominciassi, forse mi occuperei di cinematografiia». Altro ricordo: dopo un incontro in via Fondazza, Antonioni lascia in dono un libro fotografico del regista Robert Bresson e, mentre lo sfoglia, il pittore esclama: «Il cinema… è l’ultimo retaggio del Rinascimento». Tale era la sua considerazione e la passione per la settima arte.
Zucchini narra l’arrivo nell’appartamento nel 1958 di Piero Tosi, costumista di Luchino Visconti, impegnato a teatro con La Locandiera di Goldoni; e le frequenti visite, sempre verso la fine degli anni ’50, di Antonioni in compagnia di Monica Vitti. Durante una di queste, Morandi commentò: «Nei suoi film non si avverte la presenza dell’apparecchio cinematografico… e lo spettatore viene coinvolto da un procedere continuo e naturale del racconto, come accade nella vita».
Fellini non passò invece da Bologna e al suo posto sopraggiunse Tonino Guerra, coautore di diverse sceneggiature e collaboratore del regista. Un capitolo a parte merita l’episodio de “La rosa moscata e De Sica”. Si verificò a Roma nel ’ 47, quando il pittore e il regista perlustravano la chiesa di Sant’Agnese, riuscendo a penetrare nell’orto, di solito vietato ai visitatori. Morandi rimase «sorpreso dalla vista di una pianta in fiore – scrive Zucchini, – del tutto simile a uno dei fiori in stoffa che teneva in serbo per dipingere i suoi mazzetti delicati e possenti». Era una rosa moscata e tra i due nacque un sapido carteggio, con la ripromessa da parte di De Sica di inviargli a Bologna la piantina non appena attecchita nel vaso. Rose che avrebbero “posato” per una Natura morta nello studio di via Fondazza.