il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2023
La sinistra di Maradona
“Sono di sinistra, tutto di sinistra: il piede, la fede politica, la testa. Ma non nel senso politico che voi in Europa date al termine. Sono di sinistra perché voglio migliorare il tenore di vita della gente povera, voglio che tutti abbiano pace e libertà”. Così parlava Diego Armando Maradona, il numero 10 del calcio più forte di sempre, che segnò agli inglesi con la mano e poi spiegò: “Il primo gol all’Inghilterra? È stata la mano di Dio”.
Parola “de D10S”, appunto, cioè di un uomo geniale di football che una volta sbottò: “Sì, ho litigato con Giovanni Paolo II. Ci ho litigato perché sono stato in Vaticano e ho visto i tetti d’oro. E dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupa dei bambini poveri… Allora venditi il tetto, amico, fai qualcosa!”.
Nato povero e divenuto ricco, passato dalla miseria argentina alla nobiltà europea, e quindi caduto di nuovo a terra per rialzarsi ancora, in un ciclo di eterno ritorno spezzato solo dalla morte (misteriosa), amato da chi non ha niente e odiato da chi ha moltissimo, forse è stato davvero l’ultimo grande leader del secolo breve, l’ultimo eroe popolare. Questo è almeno ciò che pensa Boris Sollazzo nel suo libro Diegopolitik. L’ultimo grande leader del 900, pubblicato da Bibliotheka Edizioni, con una prefazione di Alessandro Di Battista e con un’intervista all’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, entrambi “maradoniani”.
È un libro, questo di Sollazzo, scritto con grande passione, dichiaratamente di parte, schierato alla sinistra della sinistra. Con la consapevolezza, beninteso, “che il calcio è politica, nel senso più ampio del termine. Questo sport, più di altri, può inviare istintivamente, naturalmente, messaggi di valore civile”.
Critico cinematografico e televisivo, giornalista e tifoso, l’autore racconta Diego Armando da un punto di vista tenuto in sordina o taciuto dai cantori come dai detrattori del fuoriclasse: le idee politiche di Maradona. Si potrebbero definire come una sorta di “neo bolivarismo” (da Simòn Bolìvar), con venature peroniste di sinistra e “guevariste” (da Ernesto “Che” Guevara), sempre fortemente anticapitaliste, antiamericane e legate ai movimenti di tutti gli oppressi della terra. “Bush è un assassino”, disse, “preferisco essere amico di Fidel”. E poi: “Non mi hanno fatto entrare in Giappone perché ho usato droghe, ma hanno fatto entrare gli yankees che hanno sganciato due bombe atomiche su di loro”. Gli Stati Uniti ricordati con rabbia da Diego, uomo e campione dei Sud e dei senza voce di tutto il pianeta, sono d’altronde quelli che organizzavano con la Cia e sostenevano i colpi di Stato nel Sud America, dal Guatemala al Cile, dagli attacchi a Cuba ai “contras” del Nicaragua.
Sognava anche una rigenerazione dal basso, autogestita dai pedatori, dell’orrendo mondo odierno del football, dove conta solo il denaro. Diego pensava infatti che “il calcio dovrebbe essere governato dai calciatori, è semplice. La voce del padrone dovrebbe essere quella degli atleti, non di chi non ha mai calciato un pallone in vita sua o non ha mai giocato nei tornei del suo quartiere. Questo è il mio sogno e mi dispiacerebbe morire senza prima aver visto un ex calciatore alla presidenza della Fifa, finalmente”.