La Stampa, 16 ottobre 2023
Il diavolo veste Mario Monicelli. Autore ovunque osannato, rappresentante di spicco della stagione più fulgida della commedia all’italiana
Il diavolo veste Mario Monicelli. Autore ovunque osannato, rappresentante di spicco della stagione più fulgida della commedia all’italiana. Eppure mefistofelico. Elegante, gentile, straordinariamente arguto, circondato da una banda di amici e colleghi geniali, capace di conquistare una ragazza giovane, bella, libera e femminista. Una che, misurata con i parametri di oggi, verrebbe classificata come l’assurdo in persona, una contraddizione in termini, irrecuperabile. E invece no, la realtà è sempre più complessa delle etichette, e, nel suo libro autobiografico Mio amato Belzebù (Giunti Editore), l’autrice Chiara Rapaccini, in arte R.A.P., pittrice, designer, illustratrice, nata a Firenze nel 1954, spiega come e perché si sia salvata dalla relazione pericolosa con un uomo di 40 anni più grande di lei, che avrebbe potuto fagocitarla e che invece l’ha resa com’è oggi, forte, sicura, decisa: «Ho studiato a lungo il significato del nome Belzebù, la divinità filistea che, nel Nuovo Testamento, è il principe dei demoni. Nel libro racconto la storia di una ragazza giovane e serena che vede apparire nella propria vita il diavolo tentatore, qualcuno che le dice “eccomi, io ti tento, ti farò conoscere un mondo meraviglioso, ti porto negli abissi, ma anche nel paradiso”. Molte donne avrebbero detto di no, io, invece, ho pensato “questo è l’uomo della mia vita”. Incontrarlo ha segnato l’arrivo della conoscenza. E poi Mario era bello, mi piaceva molto».Quando vi siete incontrati lei era una femminista militante, vivere con Monicelli e con i suoi amici è stato come essere catapultata in un universo opposto, profondamente maschilista. Come è andata?«Ieri sera ero al concerto di Elio e le Storie tese, sono stati a lungo i miei miti. Le loro canzoni sono piene di “machismo” e antifemminismo, ma, quando li andavamo a sentire, ridevamo tutti. Quei testi erano parte di un mondo rock, in fondo molto simile a quello di Monicelli e dei suoi colleghi, gente nata nel 1915 o giù di lì, cresciuta in una società patriarcale. Nelle sue storie Mario sottolineava quell’aspetto, e non dimentichiamo che poi si è redento, soprattutto con un paio di film, Speriamo che sia femmina, La ragazza con la pistola, lì ci faceva capire che, in realtà, verso le donne, avvertiva un grande rispetto».La distanza tra generazioni esisteva allora e esiste oggi. Perché in quell’epoca risultava più superabile?«Il contrasto è lo stesso. Da giovane ho avuto una buona relazione con i vecchi perché, alla base della loro creatività, c’era un enorme infantilismo. Monicelli e i suoi amici ridevano sempre, con loro la mia parte giovanile si trovava benissimo. Oggi la gente è sempre di cattivo umore. Per mestiere mi occupo di ragazzi, posso dire che non è cambiato nulla, se sei un adulto e hai fantasia, intelligenza, sensibilità, riesci a entrare in contatto con i giovani, difficoltà e differenze spariscono. Il problema, semmai, è che oggi i genitori sono terribilmente infantili e non riescono a capire i loro figli, molto più maturi di loro».Quanto è diverso il femminismo della sua giovinezza da quello di adesso e, soprattutto, lei ci crede ancora?«Faccio parte del movimento “Non una di meno”, sono vignettista e lavoro al servizio di questa causa. Quello di cui dubito è il femminismo delle signore della mia età, che sono rigide, un po’ snob. Le giovani, invece, hanno un femminismo arrabbiato, e con loro mi trovo benissimo. I temi, poi, sono sempre gli stessi, basta pensare ai femminicidi, al fatto che ammazzano una di noi ogni due giorni e mezzo».Che cosa la imbarazzava di più nelle serate insieme?«Le cene, i salotti, a casa di Francesco Rosi, di Laura Betti. Mi sedevo e magari avevo Moravia da una parte, Alfredo Reichlin dall’altra, nessuno mi rivolgeva la parola, tranne Suso, Age, Furio, Leo e Piero che, per me, erano come degli zii. Ero l’unica ventenne in mezzo a gente vecchia, ricca, famosa. Parlavano tutti di politica, io non seguivo molto quegli argomenti, ricordo che ripetevo a me stessa “speriamo che non mi interroghino”. Guardavo l’orologio, non vedevo l’ora di scappare via, a casa mia».Nel libro c’è la descrizione dell’incontro di Monicelli con Berlusconi. In che cosa, secondo lei, il rapporto che gli intellettuali hanno oggi con la politica, è cambiato?«Oggi la politica non esiste più, se non in modo superficiale e salottiero, c’è una distacco di miliardi di miglia tra i politici e le persone che rappresentano. Allora non era così, gli intellettuali erano presentissimi, Mario era comunista, dava soldi a Valentino Parlato per il Manifesto. Adesso gli intellettuali pensano solo ad apparire in tv. Loro, invece, erano attivi, non si vergognavano di dire che erano compagni oppure che erano di destra, si menavano alle cene, ora sono tutti gentili e educati».Amare Mario Monicelli ha significato amare un uomo che ha sempre scelto di fare quello che voleva. È stato difficile?«Il libro è questo. Racconta quanto abbia lottato in quell’ambiente, cosa che può succedere a qualsiasi donna che si ritrova in un contesto maschile e patriarcale. Capii da subito quello che dovevo fare. Dovevo stare lontana da loro e dal mondo del cinema. Mi dissi “Chiara tieniti sempre appiccicata alla tua bolla” che poi era la mia arte, le mie passioni, la scrittura per bambini. Credo che Mario mi amasse per la mia totale indipendenza dal cinema. Bisogna restare fedeli a noi stesse, lo dico alle altre donne, il mondo è ancora molto maschile, può sempre risucchiarti in qualcosa che non ti appartiene».Che cosa ha provato, oltre al naturale dolore, quando Monicelli si è suicidato?«Tanta rabbia, per un gesto così egoico. Ma sapevo che Mario era figlio di un suicida, Tomaso Monicelli, erano persone che ci mettevano un attimo a fare gesti del genere».Consiglio per una ragazza che si innamora di una persona molto più grande?«Non lo fare. Secco. Bisogna andare con le persone più giovani, anche quando si ha la mia età».