Corriere della Sera, 16 ottobre 2023
Il 16 ottobre
Quella matina se semo svegliati e abbiamo visto de le pattuglie de’ tedeschi giù al portone. Sapevano nome, cognome di tutti quanti i componenti della famiglia. Erano violenti…» (Leone Sabatello, vittima della retata). «Erano violentissimi, erano truppe scelte per fare questo lavoro» (Sabatino Finzi, vittima della retata).
«Ci diedero dei foglietti scritti a mano su cui erano segnati i nomi e gli indirizzi delle persone da arrestare. Dovevamo – lo posso dire apertamente – arrestare gli ebrei» (Karl Sommer, unità Seeling). «Era evidente che stavamo portando via famiglie intere. Mi ricordo che c’erano anche dei neonati» (Emil Karl, unità Seeling).
«Entrarono i tedeschi. Mio padre, nel frattempo, s’era rinchiuso in bagno. Fu mio zio, prontissimo, a tirare fuori la carta d’identità con il nome: Terracina Augusto. Ma loro cercavano Della Rocca Rubino, mio padre, appunto. I tedeschi si rassegnarono…» (Rav Vittorio Della Rocca).
«Durante gli arresti ebbi l’impressione che i soldati non mostrassero l’interesse dovuto e che trattassero la questione in modo estremamente superficiale. Sono convinto che alcuni ebrei, pur essendo in casa, non siano stati arrestati e che poi i soldati abbiano dichiarato di non averli trovati» (Albin Eisenkolb, Kommando di Dannecker).
Queste testimonianze sulla retata del 16 ottobre 1943 a Roma sembrano descrivere due avvenimenti diversi. L’aspetto più sconvolgente, tuttavia, è dato dal fatto che anche le stesse vittime sembrano contraddirsi. Per gran parte del dopoguerra questa immane tragedia è stata prevalentemente descritta sia attraverso le testimonianze di persone che erano presenti, ma non vittime della stessa, sia utilizzando una parte della documentazione italo-tedesca.
Ora, per comprendere nella sua complessità la razzia del 16 ottobre, è tuttavia necessario prendere in considerazione e mettere a confronto altre fonti: innanzitutto i racconti di chi è stato arrestato e deportato; poi le testimonianze dei persecutori – ma, a causa della scarsa “confidenza” degli studiosi italiani con la lingua tedesca, le dichiarazioni rese da questi nel corso delle istruttorie che hanno avuto luogo in Germania sono quasi del tutto sconosciute –; i racconti dei testimoni non ebrei, in particolare di quelli che hanno prestato aiuto, che per anni hanno taciuto; infine altra documentazione che si è resa accessibile nel corso degli ultimi decenni. Grazie a tutti questi elementi possiamo quindi tracciare un quadro preciso di quel che è avvenuto.
Dopo aver occupato il Paese, i nazisti intendono arrestare e deportare gli ebrei presenti sul territorio italiano, partendo proprio dalla capitale. Per realizzare questo obiettivo, Adolf Eichmann invia a Roma una squadra speciale (Einsatzkommando Italien) composta da meno di dieci uomini, guidata da Theodor Dannecker, un ufficiale delle SS giovane, ma già responsabile della deportazione degli ebrei dalla Francia, dalla Tracia e dalla Macedonia. I vertici diplomatici e militari tedeschi di stanza in città (il console Eitel Friedrich Moellhausen, il comandante della piazza Reiner Stahel, il comandante in capo della Wehrmacht in Italia Albert Kesselring e il capo della Polizia di Sicurezza – Sipo – a Roma Herbert Kappler), cercano tuttavia di ostacolare tale operazione perché ritengono troppo esigue le forze a disposizione, ma anche per le possibili reazioni della popolazione locale, del Vaticano e dell’opinione pubblica internazionale. Propongono quindi di impiegare gli ebrei nei lavori forzati, piuttosto che “liquidarli”, ma Berlino respinge sdegnosamente tali richieste, facendo riferimento all’esplicito ordine di Hitler (Führerbefehl) di deportare gli “8.000 ebrei di Roma”. Kappler e Stahel a questo punto mettono a disposizione di Dannecker i loro uomini senza ulteriori esitazioni. Come risulta dal rapporto di Kappler sulla retata, le forze che la effettuano sono composte da 365 uomini. Di tutti questi, solo alcuni uomini di Dannecker hanno già partecipato al processo di sterminio di massa degli ebrei, quasi tutti gli uomini assegnati alla retata sono riservisti (contadini, giardinieri, autisti o bottegai) richiamati alle armi nel 1943.
Per preparare la retata, viene sequestrato l’archivio degli uffici della Comunità ebraica con gli elenchi dei contribuenti, ma Dannecker decide di non far ricorso alla collaborazione di personale italiano, giudicato “inaffidabile”, accetta solo l’aiuto della Questura di Roma che mette a disposizione circa 15 poliziotti. All’alba del 16 ottobre vengono chiamati all’appello i componenti della Polizia d’Ordine dell’unità guidata dal capitano Seeling, nell’edificio di un convento in via Salaria 227, e delle unità guidate da Horstkotte e da Radfahrn, alloggiate nella caserma Macao. Vengono suddivisi in piccole squadre e informati del fatto che devono effettuare degli arresti. «
Posso dire fin dall’inizio che io e tutti i miei compagni non sapevamo prima dell’inizio dell’operazione che sarebbero stati arrestati gli ebrei… Siamo stati adeguatamente informati solo quando ci sono stati distribuiti dei fogli di carta bianca su cui erano scritti i nomi delle persone che dovevano essere portate fuori dagli appartamenti» (Karl Steinemann, unità Seeling). Le squadre sono composte da tre a sei tedeschi sottoposti agli uomini del SD o ai capo-plotoni. Questi dispongono di un foglietto scritto in italiano da consegnare alle persone da arrestare con le istruzioni da osservare. «Era un foglio bianco, dove c’era scritto: portare soldi, oro, gioie, mangiare per un lungo viaggio… perché non parlavan l’italiano i tedeschi» (Settimia Spizzichino, vittima della retata).
I gruppi dei persecutori procedono in modo diverso: alcuni prelevano, anche con violenza, tutte le persone che trovano presso un indirizzo, anche ebrei che sono a Roma di passaggio, o anche non ebrei, che dovranno essere rilasciati il giorno dopo. I più si limitano ad occuparsi delle persone segnalate negli elenchi, che spesso non ci sono, senza effettuare ulteriori indagini; altri ancora dimostrano “scarsa solerzia” nello svolgere il compito loro assegnato. «Nei casi in cui gli appartamenti erano chiusi a chiave, non ci siamo preoccupati di verificare la presenza o l’assenza dei proprietari degli appartamenti» (Karl Steinemann, unità Seeling). «Io c’avevo ‘na sorella co’ la bambina; gli ho detto: “Questa non è ebrea, è una che abita qua, fa la cameriera e l’ho mandata via”. M’ha creduto» (Settimia Spizzichino). Eccezionalmente altri agenti, pochissimi, sembra diano la possibilità agli ebrei catturati di fuggire, come nel caso di Giacomo Astrologo e della moglie Elena Anticoli, arrestati da un tedesco che, però, dice loro di aspettarlo e sparisce.
Risulta evidente, in ogni caso, che i nazisti non riescono a distruggere completamente l’ebraismo della capitale, per le seguenti ragioni, oltre alla già citata “inadeguatezza” dei persecutori: perché, da un lato, diversi ebrei, grazie alle loro ancor sufficienti possibilità economiche, hanno da tempo lasciato Roma; inoltre perché molti altri, soprattutto uomini in età lavorativa, in queigiorni hanno abbandonato le loro abitazioni su sollecitazione di amici, conoscenti o vicini non ebrei; perché un gran numero di persone, appena iniziata la retata, fugge all’impazzata ed evita l’arresto; infine perché viene offerto, da subito, il sostanziale aiuto da parte delle istituzioni cattoliche e da gente comune. «Il 16 ottobre noi ricevemmo una telefonata. Un funzionario dello stato ci ha avvertiti: “Fuggite!” Siamo subito usciti di casa» (Lello Perugia, arrestato e deportato nei mesi successivi). «Il 16 ottobre accerchiarono el Ghetto e io scappai via. Anvece mio papà rimase lì, dentro casa ando stava. Lo portarono via co mi’ sorella, mi’ madre e co ’na zia che stava dentro casa nostra» (Settimio Piattelli, arrestato e deportato nei mesi successivi). «
La mattina, una signora vicino, cattolica, ce bussa. Noi dormivamo tutti:”Scappate, scappate! Stanno a prende tutti gli ebrei!” Chi scappa di qua, chi scappa là… poi semo andati a dormì da ’e case de i cattolici a Trastevere, ando abitavamo noi» (Ester Calò, arrestata e deportata nei mesi successivi). «Prima di mezzogiorno è arrivato al cancello un gruppo di uomini, donne e bambini che piangevano e gridavano: “Aiutateci, aiutateci!”…Li abbiamo fatti entrare… Davanti a una situazione che strappava le lacrime, non abbiamo pensato al rischio che correvamo» (Suor Emerenziana).
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Almeno la metà di tutti gli appartamenti ebrei erano vuoti. Non è stato possibile trovare le persone nel loro appartamento. L’uomo dell’SD mi ha espresso rabbia per questo. Mi ha detto che l’azione deve essere stata tradita» (Gustav Klumpp). «Il mio gruppo non ha arrestato nessuno. Ritornammo in caserma senza aver concluso nulla» (Hans Hohensee, unità Horstkotte). «Comportamento della popolazione italiana: evidente resistenza passiva, in molti casi addirittura interventi d’aiuto» (Kappler). «L’intera operazione è stata un fallimento» (Hans Horstkotte).
Gli arresti durano solo poche ore, non terminano alle 14, come scrive Kappler nel suo rapporto lo stesso 16 ottobre. «Era tutto finito poco prima di mezzogiorno» (Josef Pinders, unità Horstkotte). La razzia non viene dunque interrotta su ordine di Himmler dietro richiesta del Papa, come appare nel film Sotto il cielo di Roma. Sono state catturate 1.259 persone, che vengono trasportate al Collegio Militare, nei pressi del carcere di Regina Coeli, dove Arminio Wachsberger, nominato interprete “ufficiale”, deve convincere i prigionieri a consegnare tutti i loro beni, soldi e oggetti di valore. Vengono poi rilasciate quasi 250 persone: i non ebrei, i “misti” e i coniugi di matrimonio misto e gli stranieri protetti. I rimasti sono «…in prevalenza donne, bambini, malati, anziani. Ricordo anche che una giovane, Marcella Perugia, partorì un maschietto» (Wachsberger). Questo piccolo innocente non riceverà un nome.
Molti si aspettano che la Santa Sede intervenga prendendo posizione sull’imminente deportazione degli ebrei, ma ciò, purtroppo, non avviene. «Il Papa – comunica l’ambasciatore von Weizsäcker al Ministero degli Esteri a Berlino – non si è lasciato convincere a rilasciare alcuna dichiarazione pubblica contro la deportazione degli ebrei da Roma, sebbene sembri aver subìto pressioni da più parti... Possiamo considerare liquidata (liquidiert) questa questione spiacevole nel quadro dei rapporti tedesco-vaticani». La mattina del 18 ottobre 1.022 persone sono caricate su un treno merci. Almeno sette persone muoiono durante il viaggio. Il treno giunge a destinazione il 22 ottobre; il giorno dopo, 826 ebrei sono uccisi col gas. Gli immatricolati sono 149 uomini e 47 donne. Faranno ritorno in 16, 15 uomini e una donna.
Delle persone caricate su un treno merci, almeno sette muoiono durante il viaggio, 826 sono uccise col gas