Corriere della Sera, 16 ottobre 2023
Intervista a Margherita Missoni
«Ricomincio, da me. Cioè da Margherita. Che è sempre Missoni ma finalmente anche e soprattutto Maccapani». È facile, per chi è nato senza un destino segnato, concludere il ragionamento con un «scusi, ma il problema dove era?». Ma per questa giovane donna non è stato così. «Un eterno conflitto: perché sono nata Maccapani e poi mi sono ritrovata Missoni. E non posso nascondere certo che è stato comodo e utile. Però avevo sempre dei sensi di colpa nei confronti di mio papà e non solo. Ogni tanto sentivo anche di non essere me stessa, cioè lo ero ma solo una parte». Eccola, bella come il sole. La voce calda. Anche se lei sembra sempre un’eterna ventenne, Margherita Maccapani Missoni ha compiuto 40 anni nel febbraio scorso; separata da poco, è madre di Augusto Amos, 9 anni, e Otto Hermann, 8. Figlia primogenita di Angela Missoni e Marco Maccapani, ha respirato colori e tessuti e moda sin da ragazzina. Prima e più di tutti i nipoti del clan. Poi accadde un’estate che Gilles Bensimon, famoso fotografo francese, amico di mamma, scrivesse: «Angela, vengo a trovarti in Sardegna, fatti spedire alcuni vestiti, che scatto un servizio con Margherita». Quelle foto divennero nove pagine su Elle Francia e nacque la nuova (e perfetta) testimonial Missoni.
In tanti erano pronti a scommettere che un giorno sarebbe stata lei il futuro di Missoni, dopo i nonni Ottavio e Rosita, sua madre Angela e i suoi zii Luca e Vittorio.
«Certo, certo. E sicuramente io mi ero fatta dei programmi di vita che erano in azienda. E poi c’è stato questo capovolgimento, interno. Ora, anche se siamo ancora azionisti, siamo usciti dall’operatività e per me è stato uno choc. Non l’ho scelto io e non ero preparata. E nello stesso tempo mi sono separata quindi è stato un ribaltamento di tutto quello che mi ero immaginata nella e per la mia vita. È stato difficile mollare le cose e cambiare. Molto difficile. Varese e le mie radici. Perché di questo si trattava. Mai ci avrei pensato. Un tempo riflettevo che se avessi voluto andare a vivere in Australia non avrei potuto. Non mi sentivo insomma libera. E non avrei mai avuto il coraggio. Adesso sono addirittura grata a chi mi ha tolto tutto. Ed è successo anche nella mia vita privata. Perché nello stesso periodo mio marito ha deciso di lasciarmi. Non avrei mai pensato che sarebbe successo: lui era un amico di mio fratello e mia nonna paterna ha sempre sostenuto che eravamo fatti una per l’altro. Quando vivevo a New York mi chiamava per dirmi che era lui la persona giusta. Così quando sono rientrata a vivere in Italia mi ha organizzato un appuntamento al buio e ci siamo sposati. Sono una donna ingombrante e difficile, lo ammetto. Per far andare bene le cose mi ero annientata per equilibrare il rapporto. Ma non è così che funziona. Lui mi ha lasciata e io mi sono riscoperta. Ora sono felice. Ho sofferto, lottato, mi sono fatta aiutare ma ci sono».
Molto difficile mollare, vero. Però dopo due anni addirittura si è rimessa in gioco con Maccapani, un linguaggio in abiti tutto nuovo.
«Appena ho mollato l’idea e il controllo, tutto ha preso una sua strada. Prima la storia del film e poi il brand spinta da colleghi con cui ho lavorato una vita. Un cerchio che si è magicamente chiuso: era il mio sogno, avevo studiato da attrice ma...».
Ma a 19 anni era già la testimonial nel mondo dell’azienda di famiglia: feste e aperture, red carpet e sfilate. Mai una settimana nello stesso posto. Lei era una delle It-girls, le ragazze più cool (da Tatiana Santo Domingo a Eugenie Niarchos a Bianca Brandolini) dello scorso decennio. Chi era Margherita ieri e chi è oggi?
«In realtà sono soltanto immagini ma dentro sono sempre io. Allora era un immaginario sempre felice, sempre solare. Oggi sicuramente è più provocante, vuole far scaturire dei ragionamenti, dei pensieri, un po’ ribelle. Un lato b che è venuto fuori da una sofferenza».
Ma sta parlando di abiti o di lei?
«Di entrambi. E in un caso e nell’altro questa Margherita sta spiazzando tutti».
Mamma e nonna cosa dicono?
«Sono felici per me».
Lo sarebbe anche suo nonno Ottavio?
«Credo che sarebbe contento e orgoglioso. Lui metteva la libertà prima di tutto. Non è mai sceso a compromessi sul tema. E quindi penso approverebbe perché è un po’ quello che avrebbe voluto per me, perché mi sono liberata del fardello di aspettative, di programmi che comunque erano stati decisi o per lo meno che la vita aveva deciso per me. Ogni tanto quando guido in autostrada, lo sento il nonno che mi schiaccia la punta del naso, lo faceva sempre. Mi manca tanto. Sembrava sempre non ascoltasse, magari era in un angolo della stanza a leggere, ma alzava la testa e diceva sempre la cosa giusta».
Chissà chi ha conosciuto con il nonno...
«Una volta risposi al telefono al posto suo. Tirai su la cornetta: “Pronto, sono Federico Fellini e chiamo dall’Hotel Roma di Rimini”. Poi ridevo sempre quando nonno chiamava Enzo Biagi perché la segretaria urlava: “Direttore c’è il suo migliore amico”. Cose incredibili, per una bambina: a otto anni Gianni Mura cercava di insegnarmi a fare gli anagrammi... e Maurizio Nichetti si stupì che non sapessi chi fosse Pirandello a 12 anni, dico dodici, però cominciai a leggere “Uno, nessuno, centomila”...».
Stimolante!
«Molto. E poi i nonni erano appassionati di sport, ogni giorno si leggeva la Gazzetta dello Sport e ogni mercoledì mi portavano a pranzo a Milanello. Così a chi mi infastidiva chiedendomi se da grande avessi voluto fare la stilista, avrei risposto: “No, io farò la giornalista sportiva”».
E invece a 15 anni disse «voglio fare l’attrice».
«Già. E stanca dei campi estivi della Montessori, chiesi di andare a un corso di recitazione a Los Angeles. Andai ospite di un amico di famiglia, Quincy Jones...».
Quincy Jones?
«Sì, sì. Era sempre emozionante stare da lui. Ti capitava di trovare Beyoncé e Jay-Z... ma la prima volta avevo 15 anni e allora mamma chiede a un altro suo giovane amico di occuparsi di me e di portarmi qualche volta fuori. Mi veniva a prendere con le sue auto scassate e mi faceva conoscere gli attori e le attrici più giovani. Lui era Vincent Gallo e la diciassettenne con cui chiacchieravo spesso si chiamava Natalie Portman».
Pensa che tutto cambiò nel 2013, quando suo zio Vittorio perse la vita in gennaio in un incidente aereo e suo nonno Ottavio morì in maggio?
«Siamo tutti cresciuti... Le dinamiche sono cambiate. Non eravamo più solo in tre ma eravamo in tanti. Ricordo le discussioni. Ed era già stato deciso di vendere prima. No, non è cominciato tutto in quell’anno così pesante. Avevano già deciso di vendere una parte allora».
La prima notte senza Missoni?
«Il mio unico pensiero era per la nonna, il dispiacere, la delusione. Buona parte della mia vita è stata dedicata a fare bella figura con la nonna... La volontà di portare avanti Missoni era dovuta a lei, in nome di tutto quello che ci ha dato e ha fatto. Quella era la cosa a cui pensavo di più. Poi però mi tornavano le immagini di quella persona che nel salutarmi mi aveva detto: “Sai qual è l’unico tuo valore in questa azienda? Il cognome che porti cioè Maccapani, e ora vai. Terribile, vero?».
La famiglia è sopravvissuta a tutto questo?
«Assolutamente sì, ci vediamo, ci sentiamo, ci sono le chat, non è cambiato nulla da questo punto di vista».
Avrebbe potuto anche non lavorare più.
«Ho sempre vissuto di ciò che guadagno da quando ho 18 anni, poi sono stata fortunata perché ho avuto molti contratti proprio per il mio ruolo in Missoni, non voglio fare il genietto».
E la stagione delle it-girls?
«Mi piaceva tantissimo esserlo: io cresciuta a Montonate sognavo sempre di essere dove succedono le cose, per esempio a New York. Sognavo ad occhi aperti e pregavo mamma di portarmi. Quando ho compiuto 18 anni sono andata: feste e viaggi, viaggi e feste. È capitato poi che i vestiti della mamma erano perfetti per me e sono diventata la testimonial dell’azienda. C’erano poi Tatiana e le altre. Ci sono ancora: ogni tanto facciamo ancora delle réunion, a sorpresa. Di solito è Eugenie (Niarchos) che le organizza: ci convoca all’ultimo, serate ma anche concerti, e noi arriviamo. Siamo diventate mamme e lavoratrici, fa un po’ effetto pensando a come eravamo, così matte».
Stupidate?
«A vent’anni se ne fanno, ma ho sempre avuto un forte senso di responsabilità. Però sono molto più leggera ora di quando ero giovane. Mi è sempre mancato vivere il momento. Quando ero ragazzina era la mia angoscia: pensavo che ogni azione avesse delle conseguenze, inarrestabili, sul mio futuro. Pensavo che non riuscendo a fare una cosa sarei stata una fallita per sempre. Ho fatto la scuola Montessori dove insegnano che tutto dipende da te e che sei tu a scegliere. E siccome ero una bambina molto responsabile e volevo compiacere, facevo sempre il massimo. Mia madre mi lasciava scegliere e fare, ma io avevo bisogno che qualcuno mi aiutasse a decidere. Fra i 15 e i 18 anni ho anche sofferto di depressione per il “se non faccio e non riesco è colpa mia”. Ero l’avversaria di me stessa».
Con la nuova avventura riparte da zero, non ha paura di non riuscire?
«Ho lavorato su questo. Ho fatto analisi. Sul “mollare” la presa e sul prendersi i rischi con la consapevolezza che non ci sono certezze. Così dopo aver fatto la figlia, la nipote, l’It-girl, la testimonial, la mamma e la moglie ho superato la necessità di identificarmi sempre con una figura e mi sono appropriata di Margherita che è una mamma, un’amica, un’imprenditrice, e anche una che vuole andare a ballare. Ma non devo per forza essere una di queste persone, sono tutto. Sono Margherita».