Corriere della Sera, 16 ottobre 2023
Il balcone di Eduardo
Questa è la storia di un momento preciso e indeterminato. Preciso, perché è stato più volte descritto nei particolari dall’uomo che lo ha vissuto, in silenzio e solitudine. Indeterminato, perché al di là di quanto è accaduto non si sa con esattezza il tempo, l’ora, la data in cui si è verificato. Qualcosa la sappiamo. Era un tardo pomeriggio, con le ombre della sera che si allungavano rapidamente; ed era inverno, perché sappiamo che da pochi giorni era iniziato il nuovo anno. E conosciamo quale anno fosse, naturalmente.
Sappiamo anche dove ci troviamo, e quale sia la città che si apre in un panorama che in altri tempi della sua storia è stato tanto bello da commuovere, e che ora è invece tragicamente triste, tanto da spezzare il cuore dell’uomo che osserva. Siamo all’inizio del 1945, e il luogo è un balcone di un appartamento del Parco Grifeo, uno dei posti più eleganti di Napoli. Dal balcone si vede un po’ di mare, e il vulcano, e il profilo della penisola sorrentina e di Capri: ma si vede soprattutto il centro storico, devastato dai bombardamenti, sventrato dalla cacciata dell’esercito tedesco, distrutto dalla fame e dalla povertà.
L’uomo che si affaccia al balcone e guarda la sua città è appena rientrato da Roma, dove per esigenze professionali vive per la maggior parte del tempo. È uno degli autori più importanti del tempo, un immenso artista, un poeta, un drammaturgo e un attore tra i massimi della storia del teatro. È all’apice della fama, ha quarantacinque anni, quanto il secolo in cui vive. Essere artista in quel tempo significa soprattutto avere cognizione della realtà, essere capace di esprimere una profonda sensibilità sociale e politica. I suoi occhi scivolano sulla città. Nello stesso tempo, la vista gli propone la desolazione e il dolore, ma la mente fa il suo lavoro. Giambattista Vico, che in quella stessa città aveva trascorso la vita, diceva che il processo della memoria e quello dell’immaginazione non differiscono. Che il futuro ha la forma del passato, perché viene elaborato attraverso i ricordi. E quindi la mente del poeta costruisce la speranza di un ritorno, di una città che abbia il sentimento e la dolcezza del passato ma anche il forte segno di quello che è accaduto, perché il futuro conservi il senso di quella morte e di quella distruzione, che mai più dovranno accadere: mai più dovrà consentirsi quello strazio. Perché le cose accadono per essere ricordate, perché il peggior delitto di una comunità è scordarsi della sofferenza, e lasciare che si creino ancora gli elementi che l’hanno causata.
Mentre cala la sera che lascerà il posto alla notte buia di quei giorni senza luce elettrica, sul balcone di Parco Grifeo nasce una storia. Nasce nel silenzio, come nascono le storie; nasce attraverso facce nuove che hanno i tratti di volti noti; nasce con frammenti di dialogo, e con luci e ambienti che assomigliano ad altri, ma che in realtà sono del tutto nuovi. Nasce vera, e assolutamente di fantasia. Come nascono le storie, insomma. Quando lo intervisteranno, chiedendogli da dove fosse venuta quella storia e cosa avesse voluto dire in particolare, risponderà che la scrisse tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e le sue deleterie conseguenze. E che «rispecchiava un sentimento che io avvertivo profondamente, e che volevo comunicare. Gli orrori della guerra non dovevano essere dimenticati: era il momento di iniziare la ricostruzione, non soltanto del paese distrutto dai bombardamenti, ma soprattutto degli uomini, della loro coscienza. Il passato non doveva essere cancellato, ma scolpirsi nella mente e nel cuore di tutti, diventare un monito per l’avvenire.»
In quei primi giorni inconsapevoli di una nuova era, prima ancora di avere la perfetta cognizione di quello che era accaduto, prima che arrivassero le inconcepibili notizie degli orrori dei campi, prima di Norimberga e dei russi a Berlino, il cuore e la mente di Eduardo De Filippo, affacciato a un balcone di Parco Grifeo mentre la notte inghiottiva le macerie e i sopravvissuti, partorivano Napoli milionaria!, così, col punto esclamativo nel titolo, a mostrare l’ottusa animale determinazione a rinascere e a vivere, a ritrovare dignità e bellezza, ad abbracciarsi e a sorridere di nuovo. E soprattutto in quel momento, nell’aria che diventava fredda come sempre nelle notti d’inverno, Eduardo incontrò Gennaro Jovine: l’uomo al quale avrebbe donato voce e volto, che sarebbe stato successivamente interpretato dai più grandi attori di quella città e non solo, che sarebbe diventato il portatore dell’immagine di quel passaggio tra un’epoca e l’altra.
A ripensarci oggi, che sono passati quasi ottant’anni, è incredibile l’intuizione che si concretizzò su quel balcone quella sera. Perché le due frasi simbolo che quel personaggio avrebbe pronunciato sul palcoscenico del San Carlo meno di tre mesi dopo, quando le armi ancora sparavano nella penisola e quando la Repubblica ancora non era nata, interpretarono il tempo più di quanto avrebbero fatto i libri di storia che, a bocce ormai ferme, avrebbero tentato di tirare le fila del periodo. La guerra non è finita, avrebbe detto Gennaro di ritorno dal fronte, verificando con amarezza che le persone attorno a lui non avevano voglia di ascoltare il suo racconto; rendendosi conto per primo, e restando anche l’unico, che i nemici erano forse cambiati ma che erano ancora più pericolosi, e si chiamavano corruzione, egoismo, violenza, miseria, contro i quali si combatteva una battaglia cruciale dall’esito incerto. E l’immortale Ha da passa’ ‘a nuttata, una spinta inaspettata verso un’alba fortunatamente inevitabile, un’apertura alla speranza e a un futuro diverso. La ragione del punto esclamativo del titolo.
Immaginiamo con immensa gratitudine il momento in cui l’uomo sul balcone, con un brivido di freddo, decise di rientrare voltando le spalle al dolore e alle macerie. Immaginiamo che una volta nella stanza andò alla scrivania, e lo vediamo sedersi e prendere una penna e un foglio di carta. Con un po’ di commozione riflettiamo a come il genio dell’arte, di qualsiasi arte, risieda nell’interpretazione del proprio tempo, ma anche nell’immaginazione concreta di un futuro prossimo e forse remoto; e siamo consapevoli di avere la fortuna di poter veder e rivedere l’opera del genio, per viaggiare nel tempo e ritrovare un passato ignoto, ma anche di sentire il brivido della visita in un futuro possibile. Per non dimenticare, ma anche per poter immaginare, e per poter cambiare. A questo, in fondo, servono i balconi che danno sulla città. Non vi pare?