Corriere della Sera, 16 ottobre 2023
Intervista a Patrick Zaki
Bologna Patrick Zaki, sono venuto qui per intervistarla sul suo libro, in cui lei racconta due anni trascorsi senza colpa nelle prigioni egiziane. Sono pagine che confermano la forza morale che noi italiani abbiamo visto in lei, e che ci ha indotti a impegnarci tutti insieme, destra e sinistra, per la sua liberazione. Per questo molti di noi si sono sentiti feriti dalle sue parole contro Israele, che ho trovato inaccettabili.
«Io sono contro l’attuale governo di Israele e le politiche che ha seguito negli ultimi anni. E non sono l’unico a pensarla così: le azioni di questo governo sono state criticate sia in passato sia in questi giorni da diversi Paesi, compresi gli Stati Uniti. Ho già messo in chiaro qual è la mia opinione riguardo l’attuale governo israeliano al Tg1 e nella mia ultima lettera a Repubblica».
La chiarisca anche ai lettori del Corriere. Cosa le è venuto in mente di definire Netanyahu un serial-killer?
«Cosa mi è venuto in mente? Ho pensato a tutti i civili, a tutte le persone tra cui donne e bambini che sono state uccise a Gaza negli ultimi anni, alla mia cara amica Shireen Abu Akleh, la giornalista che è stata uccisa l’anno scorso da soldati israeliani mentre lavorava in Cisgiordania».
A parte il fatto che Netanyahu è lì perché con i suoi alleati ha vinto le elezioni, cosa che non possiamo dire di nessun leader arabo, non crede che qualsiasi discorso debba cominciare con la condanna del massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas?
«Io sono contro tutti i crimini di guerra. Condanno l’uccisione di civili. L’ho già ribadito più volte in diverse interviste. Sono un militante pacifico per i diritti umani e sono contro ogni forma di violenza. Credo che adesso sia il momento di pensare a come risolvere la situazione e lavorare per la pace in questa parte del mondo».
Quindi lei condanna Hamas?
«Certo. Io non ho nulla a che fare con Hamas! Sono cristiano e sono di sinistra, non sono un integralista islamico. In Egitto quelli come me vengono uccisi dagli integralisti islamici. Nel 2014 raccolsi aiuti umanitari per Gaza ma mi dissero che era meglio che non andassi a portarli, perché non sarei stato il benvenuto. Io sono per la Palestina, non per Hamas. E spero che tutti gli ostaggi siano liberati. Tutti, a cominciare dagli italiani. Non dimentico che l’Italia si è battuta per la mia libertà».
Lei fu arrestato dalla polizia egiziana proprio di ritorno dal nostro Paese, come scrive nel suo libro «Sogni e illusioni di libertà», pubblicato dalla Nave di Teseo.
«Mi aspettavano all’aeroporto del Cairo da due giorni. Mi hanno strappato il permesso per l’Italia, mi hanno rotto gli occhiali. Mi hanno insultato. E hanno iniziato a picchiarmi».
Come?
«Calci, pugni, botte sulla schiena. E minacce: “Non uscirai fuori di qui”, “non vedrai mai più la luce del sole”. Io sono rimasto concentrato. Sapevo come comportarmi: non dovevo mostrarmi debole. Se li facevo arrabbiare, meglio. Se capivano che avevo paura, era la fine».
Come sono le tecniche di interrogatorio?
«Gli interrogatori sono brevi. Ti sballottano di continuo dentro e fuori la cella; e in ogni cella c’è sempre una spia della polizia. Le domande sono sempre le stesse: davvero vuoi farci credere che eri a Bologna solo per un master? Perché parli male dell’Egitto? Poi ti mostrano le foto degli oppositori del regime: li conosci? Vogliono sfiancarti. Per questo rispondevo a monosillabi».
E loro?
«Mi hanno bendato, ammanettato, caricato su un furgone. Essere bendati, non avere il controllo del proprio corpo, è terribile. Dagli odori ho capito che mi portavano nel carcere di Mansura, la mia città. Lì c’erano il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, che mi ha fatto togliere i vestiti, dicendo: “Patrick difende i gay, dobbiamo portargli qualcuno che se lo inculi”».
L’hanno torturata?
«Mi hanno messo un adesivo sulla pancia, non capivo perché. Poi, quando mi hanno applicato gli elettrodi, ho realizzato che serviva a nascondere i segni delle scariche elettriche».
Su Netanyahu
Condanno l’uccisione
di civili. Sono contro il governo di Netanyahu Gli integralisti islamici? In Egitto ammazzano
quelli come me
Come sono?
«Terribili. Ma quelli sono professionisti. Sono attenti a non lasciare tracce sui corpi. Sono scomparso per un giorno e mezzo, senza che i miei genitori che erano venuti a prendermi all’aeroporto sapessero nulla. C’era anche Reny, la donna che amo e ora è mia moglie, ma non conosceva ancora i miei, avrei dovuto presentarli… I poliziotti mi facevano in faccia il verso del maiale, come si usa da noi per manifestare disprezzo. Ma la cosa che mi ha fatto più male è un’altra».
Quale?
«Il ragazzo che portava i caffè mi ha dato una gran botta sulla schiena con il vassoio. Ancora mi chiedo perché lo abbia fatto. Non era un poliziotto. Non gli avevo fatto nulla di male. Se un giorno in Egitto faremo la rivoluzione, cercherò quell’uomo solo per chiedergli il perché».
E poi?
«Mi hanno chiuso in una cella con 52 persone. Tra loro c’erano due ragazzini, colpevoli solo di aver girato un video ironico su Maometto; altri ragazzi, musulmani, li avevano scoperti e denunciati. C’erano anche i parenti di un uomo che aveva picchiato la moglie, i cui familiari erano nella cella di fronte: era una rissa continua…».
Lei è stato davvero arrestato soltanto per un post su Facebook?
«Per quello e per la mia militanza nell’Eipr, Egyptian initiative for personal rights. Succede a tanti; ma di solito dopo due mesi escono. Quando però hanno visto che in Italia ci si mobilitava per me, hanno pensato: questo ragazzo per l’Italia è importante. E il mio caso è diventato un modo per fare pressione sul vostro Paese nel caso Regeni. In prigione mi chiamavano il ragazzo italiano».
Come mai?
«Mi confondevano con lui. Qualcuno mi chiamava proprio Giulio. “Io sono Patrick!” rispondevo. Ma Patrick è un nome cristiano, insolito in Egitto anche tra noi copti. Poi uscirono le mie foto sul giornale, e le guardie mi indicavano: quello è uno famoso! Quando Macron e Scarlett Johansson fecero il mio nome, mi chiedevano pure i selfie…».
Le sue condizioni sono migliorate?
«No. Mi hanno tagliato i capelli, e io non ho opposto resistenza, anche se i capelli sono una parte importante della mia identità».
Come ha fatto a resistere?
«Cominciai a dare lezioni di inglese, ma me lo impedirono. Poi mi portarono in un supercarcere, dove tutti avevano una divisa. Io avevo la divisa bianca, da detenuto in attesa di giudizio. I condannati avevano quella blu. I condannati a morte quella rossa. Una mattina alle sei vennero a portare via un prigioniero per l’esecuzione. Cominciò a urlare disperato. Non dimenticherò mai quelle grida».
Poi la trasferirono ancora e la misero in cella con un pazzo.
«Si chiamava Magdi, aveva un negozio di elettronica dove un terrorista dell’Isis aveva comprato un apparecchio che era servito per un attentato. Ma lui mica lo sapeva, era pure copto. Era innocente, e stare in carcere da innocenti può renderti folle. Un giorno mi gettò in faccia l’acqua bollente del tè. Un altro compagno di cella invece insisteva per farmi un massaggio…».
Com’era il suo rapporto con gli islamisti?
Le scariche elettriche
In prigione mi hanno messo un adesivo sulla pancia, poi mi hanno applicato gli elettrodi
Serviva a nascondere
i segni delle scariche
«A volte litigavamo. Quando potei vedere i miei genitori, uno mi rimproverò perché mia madre non portava il velo e io avevo bevuto da una lattina con la sinistra anziché con la destra. Mi arrabbiai: siamo in galera, non sappiamo se e quando usciremo, e tu mi rompi le scatole perché bevo con la mano sinistra?!».
E i criminali comuni?
«Ne ho visto uno appeso per i piedi a testa in giù. Ma la cosa peggiore è quando, al ritorno in cella dall’udienza, li costringono a bere un lassativo e li tengono lì, nudi, uno accanto all’altro, finché non evacuano. Lo fanno per controllare che dall’esterno non arrivi niente. E per umiliarli. Anche se poi in carcere i microcellulari entrano, io stesso me ne sono procurato uno. Poi ho avuto anche una radio».
Con cui riuscì a ricevere un messaggio da Reny e da sua sorella.
«Scrissi a Reny e a Maryse per dire che seguivo un programma alle 10 di sera. Una volta sentii: “Reny abbraccia il suo amato fidanzato, Maryse saluta suo fratello…”. È stato un momento molto importante».
Lei scrive che il primo interrogatorio vero arrivò dopo un anno e otto mesi.
«Poi ci fu l’udienza, che durò due minuti e mezzo. Eravamo 450 detenuti in due gabbie, ognuno si agitava per farsi riconoscere dal suo avvocato, invano. Sembravamo scimmie allo zoo».
C’erano gabbie anche in carcere?
«Sì, per isolare i detenuti malati. E c’era la sedia del pianto. Quella l’aveva inventata uno di noi. Se un prigioniero crolla e vuol essere lasciato tranquillo, si siede a piangere, e nessuno può disturbarlo».
Non c’è mai un momento di sollievo?
«Quando uno viene rilasciato, dalle sbarre della sua cella si grida la notizia. Quando liberarono il mio amico Mahmoud diedi io l’annuncio, e tutti i detenuti urlarono: forza Mahmoud, auguri Mahmoud!».
Il governo italiano ha lavorato per liberare lei. Dopo la condanna a tre anni, un colpo durissimo, è arrivata la grazia. Perché ha rifiutato il volo di Stato?
«Perché sono un attivista, e voglio essere libero di criticare qualsiasi governo».
Nel suo libro Giorgia Meloni non è mai citata. Perché?
«Neppure Mario Draghi; e anche il suo governo ha lavorato per la mia liberazione. Ribadisco che sono grato all’Italia per quanto ha fatto per me».
L’hanno criticata anche perché non parla la nostra lingua.
«Ma la sto imparando, grazie anche a Reny che la parla meglio (Zaki passa dall’inglese all’italiano e stringe la mano della moglie)».
La follia
Ero in cella con altre 52 persone, poi in una con Magdi che mi buttò il tè bollente in faccia. Era innocente e stare lì da innocenti rende folli
E Fazio?
«Nessun problema, andrò una delle prossime domeniche».