Domenicale, 15 ottobre 2023
Sui disegni di Francesco Hayez
Rispetto alle mostre che, a partire da quella allestita a Brera nel 1883 un anno dopo la morte, hanno continuato a perpetuare la fama e la popolarità del pittore del Bacio, celebrato come il protagonista del Romanticismo in pittura e insieme a Manzoni e Verdi tra i “padri della patria” per il suo impegno risorgimentale, questa è una rassegna davvero speciale. Per la prima volta, seguendo tutto il percorso della sua lunga parabola artistica, dall’esordio neoclassico tra Venezia e Roma all’affermazione romantica a Milano, il suo procedimento creativo viene svelato attraverso l’accostamento tra i dipinti e i loro disegni preparatorî. È affascinante quindi vedere come un pittore che affidava, sentendosi un epigono della tradizione veneta, la forza della sua pittura al colore abbia invece disegnato continuamente. Lo dimostra il poderoso corpus di centinaia di disegni, da cui non aveva mai voluto staccarsi, lasciati con i dipinti e gli altri materiali presenti del suo studio all’Accademia di Brera, dove aveva insegnato per una vita. Si tratta di album, di piccoli taccuini, di – nella maggior parte – fogli sciolti, tutti restaurati qualche anno fa dal prestigioso Opificio delle pietre dure di Firenze. Sono subito diventati oggetto di studio, ma attendono una auspicabile catalogazione e pubblicazione, anche per l’importanza e l’unicità che riveste un insieme così vasto e completo. Ci consentono infatti, insieme ad altri disegni conservati in raccolte pubbliche e private, di seguire l’evoluzione dell’officina di un artista che ha cambiato nel tempo la sua tecnica e il suo repertorio. Rispetto ai pittori del suo tempo, che proprio dal punto di vista formale risultano spesso inadeguati e non più all’altezza di un glorioso passato, Hayez si dimostra il moderno epigono dei grandi a cui si è ispirato, a partire da Raffaello e Tiziano, studiati accanitamente negli anni della formazione tra Venezia e Roma, sino ai grandi maestri della scuola veneta, tra Quattrocento e Cinquecento, per poi approdare negli ultimi anni alla esaltante riscoperta del Tiepolo. La sua versatilità, per cui si può parlare di un pittore nato, è confermata dalla capacità di cimentarsi non solo in generi diversi, ma anche nelle tecniche più impegnative, dalla pittura a olio su tela a quella su tavola, da lui prediletta e ormai caduta in disuso, all’affresco, riuscendo addirittura a dipingere in fretta grandi superfici. La rapidità era una sua dote. Dipingeva infatti di getto, senza usare come i suoi contemporanei una tela predisegnata, per seguire l’estro del momento. Per cui gli capitava spesso di cambiare soluzione in corso d’opera, come rivelano ancora oggi, proprio nei suoi quadri più belli, i numerosi pentimenti, spesso visibili addirittura a occhio nudo. Questo modo di procedere, che impressionò i critici contemporanei proprio per la sua unicità in un ambito in cui prevalevano le convenzioni accademiche, sembrerebbe in contraddizione con questa assidua pratica del disegno. Ma era proprio attraverso questo forsennato esercizio che si faceva la mano e acquistava sicurezza, sperimentando dal vero attraverso l’uso dei modelli in posa le proporzioni delle figure, le loro attitudini, i gesti, le espressioni. Poi il disegno era uno strumento non solo di osservazione della natura, ma anche per impadronirsi del linguaggio degli antichi maestri a cui si ispirava.
Probabilmente questo particolarissimo modo di procedere deve essergli derivato dalla consuetudine, durante gli anni decisivi trascorsi a Roma, con quello che è stato il suo mentore Antonio Canova. Anche il grande scultore aveva bisogno di disegnare molto per fissare un’idea, poi rielaborata una prima volta nei bozzetti per poi essere tradotta nella estrema rifinitura delle statue in marmo. Così la sicurezza di Hayez nel dipingere presupponeva questa continua sperimentazione grafica che non viene meno col tempo e che noi ritroviamo, come documenta la mostra, dal suo primo capolavoro il mitologico Laocoonte sino allo straziante Ecce homo che è una sorta di testamento pittorico, l’ultimo quadro di grandi dimensioni. Come la sua pittura anche il modo di disegnare cambia, passando da un genere all’altro, da un soggetto all’altro, nel trascorrere di una parabola artistica che lo ha visto privilegiare la pittura di storia, transitata dalla mitologia, dagli dei e dagli eroi antichi, all’immaginario moderno di Giulietta e Romeo, Maria Stuarda, del Medioevo e delle Crociate, dell’antica Repubblica di Venezia, della lotta combattuta dai greci per la loro indipendenza. Ma, come rivelano le dodici sezioni della mostra, non c’è genere e soggetto in cui non si sia cimentato, dalla pittura sacra al ritratto, dal nudo eroico maschile a quello femminile, dai temi biblici a quelli orientalisti, dalla natura morta di fiori all’allegoria. Proprio in questo ambito ha elaborato iconografie moderne e particolarmente coinvolgenti come quelle della Malinconia e della Meditazione, dove sensuali figure femminili diventano la reincarnazione delle inquietudini contemporanee e della lotta politica. Un capolavoro assoluto come la seconda versione della Meditazione, con cui si chiude la mostra, evoca, attraverso la croce con le date vergate in rosso quale colore del martirio patriottico, il dramma delle Cinque Giornate e consegna nello stesso tempo, alle nuove generazioni che combattevano per l’unità d’Italia, un’inedita e sconvolgente immagine della patria “bella e perduta”, non più rappresentata come una matrona paludata e turrita, ma una giovane donna dal seno scoperto che allatta i suoi figli.