Corriere della Sera, 15 ottobre 2023
Un errore sul futurismo
C ’è un errore, tutto italiano e rimasto stranamente confinato nel recinto nazionale, che ha accompagnato per molto tempo il futurismo. L’idea che la stagione d’oro coincidesse con la fase di avanguardia e che la qualità, esaurito lo slancio iniziale, avesse perso quota. La questione dell’adesione dei futuristi al fascismo ha inquinato gli studi, ma suddividerla in una prima e seconda stagione era, e sarebbe, profondamente sbagliato. Sottolinea Fabio Benzi, tra i massimi esperti del Futurismo, che il movimento, «galassia in continua trasformazione, ebbe durante i suoi trentacinque anni di vita, dalla stesura del primo Manifesto nel 1909 da parte di Filippo Tommaso Marinetti alla sua morte nel 1944, diverse stagioni, tutte valide ed interessanti».
La mostra Aeropittura Futurista. L’avanguardia italiana tra Biennali e Quadriennali, alla Galleria Bottegantica di Milano (via Manzoni 45, fino al 2 dicembre), con la curatela dello stesso Benzi, si concentra sull’ultimo grande capitolo, a cavallo degli anni Trenta e con code nel Quaranta, «non meno significativo dei precedenti». E subito il curatore ricorda la retrospettiva del 2014 Italian Futurism. 1909-1944. Reconstructing the Universe al Guggenheim di New York (successo da seicentomila visitatori), che scavalcando i vecchi nostrani distinguo fra «primo futurismo» e «secondo futurismo» arrivò a mettere sulla copertina del catalogo un capolavoro dell’aeropittura, Prima che si apra il paracadute (1939) di Tullio Crali.
Torniamo al titolo, alla dicitura «Avanguardia italiana tra Biennali e Quadriennali». Presto spiegato: tutte le opere in mostra, una trentina fra pitture e sculture, sono state esposte, con un paio di eccezioni, nelle più prestigiose manifestazioni d’arte dell’epoca, le Biennali Internazionali di Venezia (1926-1942) e le Quadriennali Nazionali di Roma (1931-1943). Benzi rivela l’incredibile quantità di falsi oggi in circolazione e dichiara, «scegliendo solo opere documentate ne garantiamo l’originalità».
Il periodo
La rassegna si concentra sull’ultimo grande capitolo, a cavallo degli anni ’30
Di aeropittura si parlava già negli anni Venti, ma è solo nel ’29, dopo lunga gestazione, che compare il primo Manifesto dell’Aeropittura futurista, con le firme di Marinetti, Balla, Depero, Prampolini, Dottori, Benedetta Cappa, Fillia, Tato, Somenzi – arriveranno altri manifesti in cui i singoli artisti precisano, specificano, delineano punti. Se a infiammare i futuristi erano stati, in precedenza, la macchina e la meccanica, ora l’entusiasmo è per il volo e la velocità, «l’aereo diventa metafora della potenza meccanica che ha realizzato il sogno più antico dell’uomo: volare».
La mostra di Bottegantica offre una panoramica completa della comunità dell’aeropittura: le opere più fotografiche di Bruno Tato, Tullio Crali, Enrico Prampolini (il caposcuola), le più astratte di Mario Lepore, le più spirituali di Benedetta Cappa Marinetti. L’attacco è con Derivazione plastica da Bottiglie, Bicchiere, Ambiente (1925) di Ivo Panneggi, rilievo in pietra ancora ispirato alla meccanica, perfetto come assist per introdurre la nuova ricerca. Sfilano Scivolatore in volo (1935) di Ivanhoe Gambini, la velocità dello sciatore resa dalla scomposizione della figura; Monte Tabor (1936-39) di Benedetta Cappa Marinetti, gioco di sovrapposizioni di semicerchi e colori a costruire l’immagine della montagna; le sculture Aeroritratto n.2 (1942) di Wladimiro Tulli, in alluminio, e La vittoria dell’aria (1931) di Thayat (Ernesto Michahelles), rilettura della Nike di Samotracia.
Nella sala successiva, l’iconico e bellissimo Ritratto psicologico dell’aviatore Azari di Fortunato Depero (vero anticipatore, è del 1922); Virata sull’arena di Verona (1932) di Alfredo G. Ambrosi, con il focus sul teatro e il paesaggio intorno sfumato, come si percepisce dall’alto. E proseguendo, Aerocaccia (1936) di Tullio Crali, con le due possibili letture, paesaggio capovolto o rovesciamento del piano per la picchiata del pilota; Pioggia e sole (1934) di Alessandro Bruschetti, paesaggio umbro attraversato da coni di luce; il tocco di sacro in L’eternità (1934) di Fillia (Luigi Colombo), Maternità cosmica (1930) di Enrico Prampolini, definito dalla critica «capolavoro di realismo astratto», fino alla parete finale delle tele celebrative della guerra d’Africa.