il Giornale, 15 ottobre 2023
Il "governo tecnico" visto da Vilfredo Pareto e da Luigi Einaudi
Il fantasma di un «governo tecnico» ritorna periodicamente nello scenario politico italiano. A ogni stormir di fronde polemiche o di tensioni dialettiche nella maggioranza di governo ovvero di fronte a situazioni di possibile crisi, interna o internazionale, viene evocata l’ipotesi di un nuovo governo composto in misura esclusiva o prevalente da «tecnici»: un governo che, per la sua composizione, sarebbe neutrale o non politico e potrebbe reggere le sorti del Paese indipendentemente dagli interessi di parte o di consorteria.
È evidente che questa affermazione è uno stratagemma dialettico, un trucco semantico, perché in una democrazia parlamentare, come è quella italiana, non può esistere un governo che non sia politico, cioè che non ottenga, in entrambi i rami del Parlamento, la fiducia, requisito essenziale per poter andare avanti: il voto di fiducia è un atto squisitamente politico. Del resto anche i governi che, nella storia della Repubblica, vennero qualificati come «tecnici» - per esempio i due governi Amato, il governo Ciampi, il governo Dini, il governo Draghi - furono in realtà «governi politici» che vararono, indipendentemente dalla loro efficacia, provvedimenti importanti come, per esempio, la modifica del sistema elettorale o la riforma delle pensioni. A ben vedere, in tutta la storia italiana recente, vi fu un solo governo tecnico nel senso proprio del termine e fu il governo Badoglio, costituito all’indomani della fine del regime fascista. E non si trattò certo di un governo memorabile. Tutto ciò implica che il «governo tecnico», come si tende a propagandarlo, costituisce un vulnus della Costituzione, non soltanto perché esso non è affatto previsto negli articoli della stessa, ma perché, in un certo senso, finisce per non tener conto della volontà popolare espressa attraverso le urne, la quale, solo con un nuovo ricorso alle stesse potrebbe essere modificata o confermata.
Se tutto ciò è vero - come è vero - che cosa rappresenta allora, in realtà, un «governo tecnico»? La risposta alla domanda è, a ben vedere, più semplice di quanto si pensi. Il «governo tecnico», infatti, non è altro che una «degenerazione oligarchica» della democrazia, cioè il tentativo, direbbe il grande economista e sociologo Vilfredo Pareto, da parte di una oligarchia di usare l’«astuzia» per conservare il potere reale. Un secolo fa, all’inizio degli anni Venti, proprio in un fulminante saggio, Trasformazione della democrazia, originariamente pubblicato sotto forma di articoli su una rivista cultural-politica e che può ben esserne considerato il testamento politico, Pareto analizzò il fenomeno della degenerazione della democrazia in una forma oligarchica, da lui definita «plutocrazia demagogica», sotto la pressione di organismi o strutture di tipo corporativo che minavano l’autorità dello Stato. La colpa di tale processo, a suo parere, ricadeva sull’élite politica al potere, che pensava di risolvere ogni forma di crisi ricorrendo all’«astuzia»: una parola, questa, che spiega i bizantinismi del ceto politico anche attuale, sempre pronto a inventare formule bizzarre - come, per esempio, oltre a quella del «governo tecnico», anche quelle di «governo istituzionale» o «governo del presidente» e via dicendo - per giustificare tentativi di aggiramento del dettato costituzionale sulla formazione del governo.
L’analisi di Pareto sullo sgretolamento del potere centrale e sulla tendenza di una democrazia in crisi a trasformarsi in oligarchia era certamente dettata dallo studio del disordine sociale, politico ed economico del periodo in cui si trovava a vivere, all’indomani dei tragici eventi conseguenza del primo conflitto mondiale, ma tuttavia conserva una straordinaria attualità.
Più o meno nello stesso arco di tempo nel quale scriveva Pareto, e quindi di fronte allo spettacolo di crisi e di disordine generalizzati, un altro grande studioso, Luigi Einaudi, il futuro secondo presidente della Repubblica, scrisse un memorabile articolo che metteva in guardia contro l’illusione che un governo costituito di tecnici potesse rivelarsi una panacea. Egli osservò, infatti, che «governare un paese non è la stessa cosa che guidar eserciti con fortuna o coltivare campi con successo o salvar malati da malattie mortali. È un’altra cosa: vuol dire governar uomini, indirizzandone gli sforzi ad un fine comune e collettivo». E, a mo’ d’esempio, fece notare come non bastasse «un buon teologo per fare un buon papa» perché il papa «deve soprattutto essere un ottimo guidatore di uomini dal punto di vista religioso» e tale potrebbe essere, senza danno della Chiesa, anche se fosse un mediocre teologo.
Einaudi si propose di ridimensionare idee ed attese dei «benpensanti» nei confronti di un governo costituito da tecnici, o specialisti che dir si voglia, e al tempo stesso di confutarne il disappunto nel vedere molte poltrone occupate da incompetenti. Queste «querele dei benpensanti» egli le contestò, prima, da un punto di vista teorico, richiamando la «regola della divisione del lavoro» e facendo notare che tale regola «rettamente intesa» finiva per condurre «a tutt’altre conseguenze» di quelle immaginate. Osservò quindi che sono certamente competenti nei loro campi d’azione generali e ammiragli eccellenti nella guida di eserciti e flotte, così come agricoltori impegnati nella coltivazione dei campi ovvero avvocati abituati a destreggiarsi fra codici e pandette, come pure medici in grado di riconoscere sintomi di malattie e via dicendo. Ma aggiunse, anche, lapidariamente, che tutti costoro, proprio per il fatto di essere «singolarmente periti nelle loro arti specifiche» non perciò potevano dirsi «competenti in politica, che è un’arte tutta diversa e specializzata, in cui si acquista perizia come si fa in ogni arte, con lo studio e con l’applicazione diuturna».
L’articolo di Einaudi, per quanto scritto in un momento drammatico della storia nazionale, quando l’Italia liberale era in fase preagonica, appare ancor oggi valido nelle sue conclusioni teoriche, nella contestazione cioè dell’idea salvifica dei competenti al governo e, quindi, implicitamente della capacità taumaturgica del cosiddetto «governo tecnico». Eppure - e lo abbiamo visto molte volte nel corso di tanti decenni di vita repubblicana - il «governo tecnico» si materializza periodicamente e viene presentato all’opinione pubblica come strumento capace di risolvere i problemi interni eliminando o contenendo la conflittualità e di fare da argine alle spinte destabilizzanti provenienti dall’esterno. In realtà, esso, come si è già accennato, è il sintomo, o l’effetto, di un fenomeno di degenerazione oligarchica della democrazia. Partiti e gruppi di potere esclusi al momento dalla gestione della cosa pubblica tendono comprensibilmente a invocarlo come governo «neutrale» o «di salute pubblica» ignorando, o fingendo di ignorare, che in una democrazia rappresentativa, come è l’Italia, l’unico governo costituzionalmente legittimato a reggere le sorti del Paese è quello indicato dalla volontà popolare. Che, nel caso dell’Italia attuale, non è equivocabile.