Corriere della Sera, 15 ottobre 2023
Nei film di Fellini non è mai comparsa la parola Fine
Nei film di Federico Fellini non è mai comparsa la parola «Fine», come si usava nel cinema del suo tempo. Fellini immaginava che le sue storie non si concludessero, avessero una vita propria, che i suoi personaggi continuassero a battere le strade del mondo, a conoscere avventure e delusioni, speranze e amori. A Vincenzo Mollica narrò che, da giovane spettatore, quella parola, «Fine», lo irritava, gli faceva pensare al termine della festa, al ritorno ai doveri, ai compiti da fare.
Perché, per Fellini, il cinema è sempre stata proprio una festa. Un allegro baraccone da riempire di colori e di persone. Si sentiva simile al Creatore, quando guardava il grande teatro di Cinecittà, il suo numero cinque, vuoto, deserto e silenzioso. Immaginava poi di popolarlo delle sue birichinate, dei personaggi che più assomigliavano ai suoi disegni – non il contrario – delle fantastiche confusioni che gli volteggiavano in quella testa piena di sogni.
Uno dei suoi film più famosi, 8½, nasce proprio in questo meraviglioso caos. Fellini non riusciva a trovare il senso di una storia che dentro di lui si era manifestata più come atmosfera che come racconto strutturato. Aveva iniziato a scrivere una lettera al produttore per dire che rinunciava, il set era già pronto, quando il capo macchinista Menicuccio lo interruppe per invitarlo a brindare per il compleanno del suo collega Gasparino. E lì, in quella festa allegra in cui si festeggiava anche il film che stava per cominciare, Fellini capì che non poteva più tornare indietro. E si rese conto che questo, proprio questo, sarebbe stato il senso di 8½: la storia di un regista che non sapeva più che film voleva fare.
Questa è, almeno, la storia che Fellini raccontò. Che fosse vera o no, è tutto da dimostrare. Come diceva Alberto Sordi, che lo conosceva bene, Fellini era «il più grande bugiardo della terra». Inventava storie a ripetizione, e lui stesso poi non ricordava più se fossero vere o no. Ma non contava, né per lui, né per noi. Perché nel suo cinema, forse nella sua vita, non esisteva confine o linea di demarcazione tra realtà e fantasia.
In un prezioso piccolo libro, un’intervista che non voleva fare a Giovanni Grazzini, il regista raccontò la sua giovanile folgorazione per il mondo della celluloide: «Mi accorgevo che il cinema ti permette miracolosamente questo doppio, grande gioco, di raccontare una storia e, mentre la racconti, viverne tu stesso un’altra, avventurosa, con personaggi straordinari quanto quelli che stai narrando; e a volte anche più affascinanti, e di cui parlerai in un altro film, in una spirale di invenzione e vita, di osservazione e creatività, spettatore e attore nello stesso tempo, burattinaio e burattino, inviato speciale e avvenimento, come quelli del circo che vivono in quella stessa pista dove si esibiscono, in quegli stessi carrozzoni in cui viaggiano».
«La spirale di invenzione e vita», «Inviato speciale e avvenimento»: nel modo spettacolare in cui racconta il suo cinema c’è tutta la magia della sua avventura umana e la ragione della persistenza, nel tempo, ovunque, del mondo di immagini che lui ha creato.
«Una scena felliniana» o «Un personaggio felliniano» sono divenuti modi di dire, spesso usati arbitrariamente, per definire qualcosa che volteggia in quel limbo chiassoso e colorato tra realtà e finzione, in quel meraviglioso baraccone di atmosfere che Fellini allestiva ogni volta che indossava la sua sciarpa rossa, inforcava il megafono e con quella vocina, che sembrava una presa in giro, diceva «Azione».
Il suo cinema ha svuotato la sua memoria, tanta ne ha riversata nei personaggi, negli ambienti, nelle storie. Aveva scritto opere magnifiche del neorealismo, con Rossellini, ma poi ne aveva avvertito l’insufficienza. Gli sembrava che fosse stato inghiottito in una deriva ideologica che disdegnava ciò che a lui più piaceva: l’emozione personale, la fantasia, il gioco della creazione della realtà.
Il suo cinema invece era una cornucopia in cui si agitavano confusamente i fumetti della sua infanzia, il Kafka della Metamorfosi, Buster Keaton, più di Charlot, i clowns e gli acrobati, Dickens, Omero, Matisse, il silenzio dei luoghi abbandonati. E tutti i fantasmi della sua Romagna, come il Nasi, una simpatica canaglia che aveva venduto a un tedesco un pezzo di mare davanti al Grand Hotel e, richiesto di una descrizione della sua filosofia di vita, diceva: «Non sappiamo più vedere la verità perché non sappiamo curvarci fino in terra».
Sono passati trent’anni da quando Fellini se ne è andato. Il suo mondo immaginario continua a muoversi leggero nell’aria, come le «manine» di Amarcord che annunciavano la primavera.
Il migliore omaggio che si può fare oggi a Fellini è dire che anche per il suo cinema, per le sue parole, per la sua vita, non può essere scritta, non è stata scritta, la parola «Fine».