La Stampa, 14 ottobre 2023
Intervista a Etgar Keret
Nel 2020, dopo che una terribile esplosione aveva scosso Beirut e si parlava di attacchi terroristici su larga scala, la stand up comedienne libanese Carmen Chraim ha risposto alla domanda su come facesse tutte le sere a salire su un palco per fare battute non conoscendo la sorte del proprio paese: «Bisogna provarci», ha detto laconica. «Fermarsi significa dichiarare la sconfitta». Il modo che ha Etgar Keret di continuare a provarci passa dalla letteratura umoristica, che per lui diventa una questione privata, il suo personalissimo scudo all’incertezza e alla violenza che troppe volte ha visto esplodere ai margini e nelle città del suo paese, Israele. Trasformare in umorismo l’assurdità incomprensibile di un’esistenza al limite del conflitto è la sua arma. L’unica che, da pacifista convinto, si concede.
Le chiederei come va, ma…
«È tutto molto instabile. Quando comincia una guerra il tempo si dilata e se ripenso alle prime ventiquattro ore dopo gli attacchi ho la sensazione che in realtà siano trascorsi quattro mesi. Dal momento in cui i terroristi hanno fatto irruzione nei kibbutz di Kfar Aza a quello in cui hanno annunciato le prime dieci vittime, mi sono venuti i capelli bianchi».
È l’incertezza a logorarla?
«Più che altro il senso di inutilità».
PUBBLICITÀImpotenza?
«No, no, proprio inutilità. Il novanta percento di noi è inutile. Ho letto da qualche parte che durante la Prima Guerra Mondiale c’erano alcune vedette su dei palloni aerostatici: passavano ore semplicemente a osservare cosa accadesse al fronte, senza scendere. Il tasso settimanale di suicidi tra loro era in percentuale più alto di quello tra i soldati nelle trincee. Ecco, in Israele per chi vive fuori dalla striscia di Gaza in questo momento è così. Siamo su dei palloni aerostatici e osserviamo».
Non un grande spettacolo, suppongo…
«La verità è che non vediamo succedere niente in tempo reale. Aspettiamo che accada qualcosa, ma nulla si muove. La guerra per noi è così: se non siamo sotto attacco diretto passiamo il tempo di fronte alla televisione, ci ripetiamo che dobbiamo rimanere informati, che non possiamo distogliere l’attenzione, e ci ritroviamo immersi in tutto questo dolore, questa preoccupazione, quest’ansia, senza che in effetti accada nulla che ci coinvolge direttamente».
Non c’è proprio niente che possiate fare?
«C’è chi accetta la propria condizione di vedetta nel pallone e chi cerca di ribellarsi. Quando dopo il primo attacco i feriti chiamavano aiuto dai loro nascondigli nei cespugli, c’è chi ha preso la macchina e, disarmato, è andato ad aiutarli. Ha rischiato la propria vita per persone che non conosceva».
Da dove è venuto questo impulso spontaneo, secondo lei?
«È stato qualcosa di automatico. L’energia di chi nei mesi e negli anni scorsi è sceso in piazza per protestare contro Netanyahu si è in qualche modo condensata e solidificata nell’urgenza di fare qualcosa di pratico quando tutti gli errori del governo si sono espressi in una tragedia tangibile. Hanno voluto aiutare, salvare, dimostrare che la protesta ha un risvolto pratico».
È il contrario della vendetta…
«Esatto. Non vendetta, ma compassione. Praticità che vada al di là della guerra».
E lei la sente questa urgenza?
«Continuamente! Però devo dire – e lo ammetto apertamente perché lei non è israeliano e non è mia moglie – che quello che faccio io non mi sembra molto utile».
Cioè?
«Sono appena tornato da qualche ora di volontariato in un ospizio. Alcuni degli ospiti sono anziani, altri anzianissimi. Molti di loro hanno perso qualche nipote o pronipote nella guerra. Hanno molta difficoltà a seguire le procedure antimissile, quindi sto lì con loro in attesa e intanto parliamo, così se suona la sirena posso aiutarli. E ogni tanto vado a leggere per i bambini dei kibbutz evacuati. Mi trovo seduto in un angolo con una bimba di cinque anni che magari ha visto sparire metà dei suoi compagni il giorno prima, a scherzare. Non credo sia molto utile ai fini pratici, ma mi fa sentire come se non fossi una delle vedette sui palloni».
Mi sembra tutto molto utile, in realtà…
«Lo è a livello personale, non comunitario. È come se aiutassi una persona alla volta a estraniarsi per un momento. E aiuta me a fare lo stesso».
Non le sembra importante?
«Se si sommano molte di queste esperienze, lo diventa. Sono cresciuto in una comunità composta soprattutto di immigrati recenti. I miei genitori, entrambi sopravvissuti all’Olocausto, erano tra i pochi europei; quindi, continuavano a chiedere a mia madre di andare a parlare della sua esperienza. Lei ha sempre rifiutato. Diceva: “Ho vissuto l’Olocausto, non lavoro per l’Olocausto”. Immagino che distrarsi serva a questo, a scrollarsi di dosso la tragedia».
Ha anche a che fare con l’identità personale?
«Indubbiamente. Dal momento in cui ci si comincia a identificare sempre con le vittime in cerca di vendetta, si trasfigura come esseri umani. È questo il sentimento che in larga parte affligge Israele: l’idea che si debba lavare col sangue un torto subito. Per questo sono così preziosi i momenti di normalità. Sono ricordi alternativi, che esulano dal vittimismo».
Immagino che di scrivere non se ne parli…
«No, per niente. In questo momento sono un po’ meno di un essere umano. Quasi un essere umano, ma non un essere umano completo».
E per scrivere ha bisogno di tutta la sua umanità?
«Per scrivere c’è bisogno di tempo e di concentrazione. Il tempo ci sarebbe anche, ma la concentrazione è tutta un’altra cosa. Dovrei potermi sedere e riflettere, elaborare, avere la mente sgombra da fatti che non hanno nulla a che vedere con il mio lavoro. In questo momento posso contare solo su brevi attimi, utili a prendere fiato».
Cos’è che fraziona il tempo?
«Tutto. La necessità di avere notizie, la consapevolezza costante che tra cinque minuti potrei dover svegliare mio figlio perché suona la sirena, che tra dieci qualcuno potrebbe chiamarmi per andare a donare il sangue. È come vivere costantemente nel presente, che fa sì che il presente non esista più. E per scrivere bisogna essere presenti al presente, in un certo senso».
A volte si dice che l’umorismo sia un’arma per esorcizzare la tragedia…
«C’è una cosa che penso, in particolar modo riguardo all’umorismo ebraico, e che spero emerga bene dal mio lavoro: l’umorismo è l’arma dei deboli. I forti, coloro che hanno il potere, non ne hanno bisogno. Perché possono cambiare arbitrariamente ciò che non gli piace, possono piegare la realtà a loro discrezione. Se non si ha questo potere ci sono due cose che si possono fare: arrendersi o scherzarci sopra».
E cosa si ottiene?
«È un modo per affermare che anche se la realtà è avversa, non ne siamo assoggettati. Pensi a quante battute esistono sulla morte: se sconfiggessimo la morte non ci sarebbe più la necessità di scherzarci. Gli studenti prendono in giro i propri insegnanti, perché sono loro a giudicarli, ma gli insegnanti non hanno alcun motivo per prendere in giro gli studenti».
È un modo per trascendere la violenza?
«È la più valida alternativa. Il mio scrittore umoristico preferito è Sayed Kashua, un ebreo palestinese, perché lui è due volte dalla parte sbagliata. È una minoranza per i palestinesi, essendo ebreo, e un nemico per gli israeliani, essendo palestinese. Non ha altro mezzo per proteggersi se non il suo umorismo».
Che notoriamente scivola sotto la cieca arroganza…
«C’è una storiella che mi piace molto, non è divertente, ma credo che confermi la mia teoria. Siamo ai tempi dei pogrom in Russia. Un ebreo sta camminando su un marciapiede stretto e incrocia un cosacco. Il cosacco lo aggredisce: “Non scenderò dal marciapiede e camminerò nel fango per cedere il passo a un insignificante pezzo di merda”. L’ebreo allora scende dal marciapiede, nel fango. Lo guarda e risponde: “Strano, io lo faccio sempre!”».
Non è vero che non è divertente…
«È vecchio stile, diciamo. Però il punto per me è che l’ebreo sarà tornato a casa con i pantaloni sporchi, ma con l’orgoglio intatto di chi ha vinto una battaglia».
E il cosacco?
«Probabilmente non l’ha capita».
Quindi l’umorismo è importante di questi tempi?
«Fondamentale. Soprattutto a livello privato, anche perché spesso le battute che si generano in un periodo difficile possono sembrare sbagliate, irrispettose, e magari lo sono anche. Sarebbe meglio non divulgarle».
Perché?
«Be’, sono modi per tirare avanti individualmente. Per vincere la paura in famiglia, per esempio. C’è una battuta idiota che faccio sempre a mia moglie quando suona la sirena antimissile. Le prendo la mano e le dico: “Non preoccuparti, se non sopravviverai mi rifarò una vita con una donna molto più giovane e daremo il tuo nome alla nostra prima figlia”. Va bene per noi, non per tutti».
Suo figlio ha diciotto anni, vero?
«Quasi. Ha sei mesi di vantaggio sul servizio militare obbligatorio».
Siete preoccupati?
«Da quando è nato. Un’altra battuta stupida che facevo sempre a mia moglie, riferendomi a nostro figlio, era: “Non preoccuparti, per quando avrà l’età per servire il paese, un paese non esisterà più”. Adesso sta cominciando a rinfacciarmela. Quando sono cominciati gli attacchi di questi giorni mi ha fatto: “Ti ho sempre detto che non sei divertente”».
C’è un momento in cui si smette di provare a scherzarci sopra?
«Quando si smette di provarci, si muore. La vita stessa è un tentativo fallimentare: si vive provando a conquistarla e poi si muore. Se non ci si prova nemmeno, si toglie senso a tutto l’esperimento».
Pensa che cambierà qualcosa nella percezione della sinistra e del pacifismo israeliano?
«Penso che sia già cambiato qualcosa, innanzitutto nella definizione di destra e sinistra. Dopo l’escalation di assurdità, di violenza, di arroganza di Netanyahu, quando vado alle manifestazioni mi trovo sempre più spesso in compagnia di persone contro le quali avevo protestato. Persone che avrei senza dubbio definito fascisti. Ministri, membri del parlamento. Quindi non è più una questione di destra o sinistra, si è tutto ridotto al fatto di considerarsi o meno superiori ai palestinesi. È una barbarie».
Mi fa un esempio pratico?
«La sinistra è sempre stata favorevole alla soluzione a due stati per la questione palestinese. Ora, se qualcuno me lo chiede, rispondo che prima di pensare ai due stati mi piacerebbe avere in parlamento qualcuno che non fosse islamofobico o razzista, per cominciare. Perché la convivenza è indubbiamente auspicabile, ma bisognerebbe innanzitutto liberarsi dell’odio».
In tutte le sue forme…
«Esatto. Vorrei vedere della comprensione a livello politico per le ragioni di tutti, per i diritti di tutti. Vorrei che venissero fatte delle leggi contro l’omofobia e che non passassero quelle omofobe, per esempio. È come se fossimo tutti passeggeri di un’auto che sta per uscire di strada e ci chiedessimo se stiamo ancora andando nella direzione giusta. Prima sarebbe il caso di non schiantarci».
Da cosa deriva questo continuo senso di emergenza?
«C’è una cosa che ho scritto tempo fa, durante le proteste anti-coloniali: per tutta la vita ho avuto paura che Israele annettesse i territori occupati e non mi sono accorto quando i territori hanno annesso Israele».
Cosa significa?
«Che la brutalità, la xenofobia, il razzismo che caratterizza il sentimento dei coloni nei confronti dei palestinesi, ora è ovunque. Il linguaggio che veniva riservato dai coloni verso i palestinesi ora viene esteso a chi protesta, dicono che la polizia non è abbastanza violenta nei nostri confronti. Ora, perché la maggior parte di noi non sta con Netanyahu, siamo tutti palestinesi. Tutti traditori».
Come andrà a finire?
«Me lo domando da sempre. Posso concludere con una citazione di mio padre?».
Certamente…
«Quando ero piccolo gli ho chiesto, con l’innocenza dei bambini: “Papà, pensi che l’Olocausto sia stato il periodo peggiore della tua vita?”. Mi ha risposto: “Nella vita non ci sono periodi migliori o peggiori, solo periodi facili e periodi difficili. E ho imparato che i tempi facili sono i più divertenti, ma che purtroppo è dai tempi difficili che si impara qualcosa”. Questi sono tempi difficilissimi, ma noi israeliani stiamo imparando molto di noi stessi».