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 2023  ottobre 14 Sabato calendario

Parla Jon Fosse, ultimo premio Nobel

«Ogni scrittore, che lo si ammetta o no, vorrebbe vincere il Nobel. Quest’anno è toccato a me e ne sono davvero felice, ma credo sia importante ricordare che ci sono tanti altri grandissimi autori che lo avrebbero meritato e non lo hanno ricevuto». Giacca nera e capelli raccolti in una coda, parla con la consueta umiltà e gentilezza Jon Fosse, l’autore norvegese al quale lo scorso 5 ottobre è stato assegnato il premio più prestigioso per la letteratura.
Mentre è appena uscito da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi il secondo volume della sua impresa narrativa più ambiziosa, la Settologia, e in attesa che il 5 marzo debutti al Carignano di Torino la sua opera teatrale La ragazza sul divano diretta da Valerio Binasco, Fosse parla a La Lettura via Zoom. Della scrittura che, dice, «mi ha salvato», ma anche della sua vita (l’incidente stradale che lo segnò a sette anni, l’alcolismo, la conversione al cattolicesimo...). Il dialogo avviene in collegamento da Oslo, dall’edificio reale di Grotten che gli è stato assegnato per i suoi meriti letterari.

L’Accademia svedese le ha conferito il Nobel «per le innovative opere drammaturgiche e la prosa che danno voce all’indicibile». Si riconosce in questa motivazione?
«Completamente, è quello che cerco di fare. Quando scrivo c’è un linguaggio fatto di parole che puoi leggere. Ma c’è anche un altro linguaggio silenzioso che cerca di esprimere che cosa è davvero importante nella vita e che, sia nella narrativa sia nel teatro, non si può dire direttamente. Spero che i lettori della mia Settologia percepiscano queste parole silenziose. È stata definita un lungo poema in prosa, e in effetti io stesso nello scriverla mi sono sentito più un poeta che un autore in cerca di una storia o di una qualche forma di trama».
La «Settologia» è un’impresa narrativa di oltre 1.200 pagine senza mai un punto, divisa in 7 parti. La prosa è avvolgente, mistica, con un protagonista che scivola tra presente e passato, riflettendo sul senso dell’arte, della religione, della vita. Da dove trae ispirazione un’opera così poco tradizionale?
«Preferisco non pianificare nulla in anticipo. Voglio essere sorpreso quando scrivo. Mi siedo con la tastiera davanti e vado. Se l’inizio è buono, dopo poche pagine si è creato un universo e molto è già deciso. Quindi devo solo ascoltare. Scrivere è un processo di ascolto, assomiglia alla musica. Da adolescente suonavo, soprattutto la chitarra, ma anche il violino, poi improvvisamente ho smesso e ho iniziato a scrivere, cercando di ricreare sulla pagina lo stato in cui mi trovavo grazie alla musica. Ed ecco tutte le ripetizioni, le variazioni della mia prosa... Ovviamente la musica non è la scrittura, ma può esserne una buona metafora».
La musica della «Settologia» è diversa da quella di altri suoi precedenti lavori. Lei stesso ha parlato di una «prosa lenta», che ha preso origine in una fase in cui aveva bisogno di fermarsi e di «calmare» anche la sua scrittura.
«Una decina d’anni fa mi sono preso una pausa dai tantissimi viaggi che affrontavo seguendo le mie opere teatrali, ma anche dalla scrittura drammaturgica e dalla sua intensità. Per un po’ mi sono dedicato alle traduzioni, ad esempio a una versione dell’Orestea di Eschilo. Poi ho sentito l’esigenza di tornare alla narrativa. Nell’estate del 2015 sono stato invitato dal mio traduttore giapponese nel castello che fu del poeta e drammaturgo Paul Claudel nel Sud della Francia. E lì ho iniziato la Settologia. Cercavo qualcosa in cui tutto potesse prendersi il suo tempo e scorrere in ampi periodi, ma non avevo pianificato un testo così lungo; fino a quel momento le mie opere narrative erano più brevi. È come se le 1.200 pagine fossero sgorgate da sole. E anche il fatto che non abbiano punti non scaturisce da un mio tentativo di letteratura sperimentale; semplicemente, sono entrato nel flusso e non l’ho più bloccato».
La sua scrittura rinvia ad altro, a un secondo livello di lettura. Ma è innegabile che Asle, il pittore protagonista della «Settologia», in qualche modo le assomigli: ha i capelli raccolti in una coda, anche lui da ragazzo suonava, è un ex bevitore ed è diventato cattolico dopo una lunga fase di ateismo...
«È vero, ho reso esplicita questa somiglianza. Ma non si tratta di autofiction. Quando scrivi può capitare di attingere dalla tua vita, dalle tue esperienze, ma il lavoro più importante è trasformarle, farle volare, è questo che fa la letteratura. Se non accade e ti limiti a descrivere la tua biografia, il risultato è pessimo, non ha ali. Nel caso della Settologia ho voluto in un certo senso giocare con l’autofiction, introdurre un elemento d’ironia, far emergere la somiglianza per poi lasciare scoprire che la verità va cercata altrove».
Subito dopo il Nobel lei ha detto di essere «sorpreso, ma non troppo».
«Da un decennio il mio nome circolava tra i possibili candidati, quindi in un certo senso ero preparato. Ma alla fine non era mai successo, così proprio quest’anno mi ero detto: “Non lo riceverai Jon, è stupido continuare a pensare che potrebbe accadere”. Ma il 5 ottobre, mentre guidavo lungo la costa nella parte sud-occidentale della Norvegia, ho ricevuto la chiamata dell’Accademia svedese. Ho sentito un’improvvisa grande felicità, e subito dopo ho pensato che non fosse possibile. Nell’immediato ho avvisato solo mia moglie, poi la sera abbiamo cenato nel piccolo appartamento che abbiamo vicino alla città di Bergen. Un ristretto, pacifico festeggiamento di cui l’unico ospite è stato mio figlio più grande che abita in zona».
In poco più di una settimana la sua vita è già cambiata?
«Immediatamente sono arrivati giornalisti e troupe televisive. Poi in questi giorni centinaia, se non migliaia, di email, messaggi, telefonate, soprattutto di congratulazioni. Sto rispondendo il più possibile, sono giorni impegnativi, ma credo che l’attenzione scenderà. Mi è già capitato per una quindicina d’anni di essere famoso grazie al teatro. Come ho accennato, viaggiavo molto, ma alla fine ero troppo stanco e mi sono fermato. Da oltre un decennio rifiuto quasi tutti gli inviti. Ora ne sto ricevendo molti, sicuramente andrò a Stoccolma a ritirare il premio, ma poi credo che la mia porta si chiuderà di nuovo, tornerò alla mia vita tranquilla, sperando di riuscire a scrivere come prima».

Lei non ha nascosto i suoi trascorsi con l’alcolismo. Hanno influenzato anche la sua opera?
«Quando giravo il mondo con le mie opere teatrali – sono stato a Shanghai, Tokyo, Cuba... – per metà dell’anno ero in viaggio, quasi sempre solo. La mia unica compagnia era una bottiglia di whisky. L’alcol mi aiutava ad affrontare tutto, ma quando diventa troppo è distruttivo. Mi ritrovai a dover bere anche al mattino: non ero più io a controllarlo, ma l’alcol a controllare me. Fino a che un giorno ho avuto un collasso e sono stato ricoverato. È stato allora che, uscito vivo dall’ospedale, circa tredici anni fa, mi sono detto: “Ora basta”. Oggi potrei bere normalmente, come tutti, ma da tempo per me l’alcol non ha più un buon sapore, non è più così affascinante. E ho dovuto sostituirlo con qualcos’altro».
Con che cosa?
«La scrittura, innanzitutto. Da quando ho smesso di bere ho scritto molto di più, riempiendo le ore. La Settologia è nata tra le 5 del pomeriggio e le 9 del mattino. E la mia conversione è avvenuta circa un anno e mezzo dopo lo stop all’alcol».
Che cosa è accaduto?
«Va detto che da ragazzo, intorno ai sedici anni, avevo lasciato il cristianesimo protestante, maggioritario in Norvegia, e per molto tempo non appartenni ad alcuna fede. Per un periodo mi attirò il movimento dei quaccheri, senza preti, senza messa, senza sacramenti. Fino a che, dopo avere chiuso con l’alcolismo, sentii che avevo bisogno di qualcosa di più forte e mi avvicinai al cattolicesimo, sul quale – con una moglie cattolica, e non solo per questo – avevo già iniziato a documentarmi dagli anni Ottanta. La messa divenne in un certo senso un modo per entrare in qualcosa di più grande, lo stesso che cerco di fare con la scrittura, provando a liberarmi di me e fuggire altrove. Oggi sono un cattolico praticante, vado a messa una volta alla settimana, prego tutti i giorni, come in una specie di meditazione. Anche se, certo, mi definisco credente, sotto molti aspetti sono lontano dal dogmatismo. Nella Settologia cito il teologo medievale tedesco Meister Eckhart, il quale ha influenzato il mio modo di credere, e che fu accusato di eresia. Che sia anch’io un eretico? Non mi importa, e credo non importi neanche a Dio, che forse preferisce persino gli eretici, chi lo sa?».
Lei ha parlato di un altro episodio della sua vita: un incidente stradale a sette anni in cui ha rischiato di morire e che l’ha segnata. In che modo?
«Mi ha dato una prospettiva sulla vita al di fuori di me stesso. Mi sono visto dall’esterno in una luce scintillante, in uno stato pacifico e felice. E questa prospettiva “al di fuori di me” è il fondamento della mia scrittura. Il mio cercare di dire l’indicibile, e il continuare a farlo, ha a che fare con questo incidente, con questa esperienza fondamentale della mia vita».
Anche la scrittura ha avuto un ruolo cruciale nel suo percorso esistenziale.
«I primi racconti risalgono a cinquant’anni fa. Già dall’adolescenza sentivo che la scrittura mi offriva un riparo, una protezione. In un certo senso mi ha salvato. Scrivere è il mio modo di vivere. Mi annoio se non lo faccio, divento inquieto. Al contempo, il teatro mi ha quasi ucciso: non tanto la scrittura drammaturgica o le produzioni, quanto il caos che c’era intorno. Avevo fino a cento prime l’anno, ma non ero l’uomo giusto: sono timido e riservato, una persona estroversa se la sarebbe cavata meglio. Per questo mi sono fermato, anche se poi alla drammaturgia sono comunque tornato. Più in generale, ho capito che dalla scrittura ho bisogno di prendermi delle pause. In passato l’ho fatto, ad esempio, insegnando. Un altro modo è tradurre. Di recente mi sono occupato del Processo di Franz Kafka e di una raccolta di suoi racconti».

Per il successo teatrale ha pagato un prezzo ma è innegabile che lei sia uno dei drammaturghi più rappresentati al mondo. Il suo Nobel è anche una vittoria del teatro?
«Se così fosse, ne sarei molto felice. Il teatro è una forma d’arte che, quando funziona bene, diventa una bellissima esperienza per tutti quelli che vi prendono parte, a partire dal pubblico e dagli attori. Il teatro oggi ha bisogno di voci nuove, forti, con un’identità specifica, che vengano dall’esterno del teatro stesso, cioè dalla letteratura. Se Samuel Beckett, Anton Cechov o William Shakespeare non ci fossero stati, il teatro sarebbe stato molto meno interessante».
Non ci sono oggi le voci di cui parla?
«Tra gli ultimi grandi c’è la drammaturga Sarah Kane, prima di lei Thomas Bernhard e poi Peter Handke. Ma sono abbastanza sicuro che ci siano nuovi autori validi, con una loro voce, solo che non li conosco, hanno bisogno di essere visibili, e potrebbe volerci del tempo».
Lei è stato paragonato a Beckett e ad Henrik Ibsen. È un parallelismo in cui si riconosce?
«Da studente leggevo Beckett, ne apprezzavo molto le opere teatrali e ho visto abbastanza presto alcune grandi produzioni. C’era qualcosa in lui che mi attraeva e mi attrae ancora. Così, mentre scrivevo la mia prima opera drammaturgica, avevo in un certo senso paura della sua voce così forte. Per questo, nel 1992, la intitolai Qualcuno arriverà: una risposta ad Aspettando Godot, come se Beckett fosse una sorta di padre al quale ribellarmi. Quanto a Ibsen, siamo entrambi norvegesi e molto rappresentati all’estero, ma lo sento molto lontano. Nelle sue opere è riuscito a rendere quasi evidenti le forze invisibili che dirigono la nostra vita, ricordando in questo le tragedie greche, ma non c’è amore nella sua scrittura».
Chi sono i suoi modelli letterari e drammaturgici?
«Se parliamo di influenze in generale, chi in realtà ha avuto più peso è stato un filosofo: Martin Heidegger. Se ci concentriamo sulle influenze letterarie, il nome è invece il norvegese Tarjei Vesaas. Lessi il suo romanzo più noto, Gli uccelli, già quando ero molto giovane».
Se al teatro servono nuove voci, come sta oggi la letteratura?
«La scrittura influenzata dalle politiche dell’identità non ha a che fare con la letteratura. Così come l’autofiction se, come dicevo, non riesce a diventare altro. In generale la mia idea è che, se hai un messaggio politico, religioso, di qualunque tipo, e la tua scrittura lo porta avanti per influenzare le persone, allora non fai buona letteratura. Ci sono tuttavia autori che apprezzo anche se molto lontani da me, come la Nobel 2022 Annie Ernaux: nel caso dell’autrice francese considero il suo modo di scrivere una sorta di anti-letteratura, che però mi piace».
A proposito di Nobel, non l’hanno convinta i premi a figure come Bob Dylan e Dario Fo, mentre ha difeso il riconoscimento a Peter Handke.
«Lo stesso Dylan non voleva affatto ricevere il Nobel. È un bravo cantautore, ma non un poeta. E il suo brano Mr. Tambourine Man può sembrare poesia, ma non lo è, perché ha bisogno della musica per guadagnare la sua vera forza. Analogamente, posso ammirare Dario Fo come uomo di teatro, ma non è uno scrittore. Per quanto riguarda Handke, è vero che andare al funerale di Slobodan Miloševic è sbagliato, ma se si guarda solo alla sua letteratura, credo sia l’autore vivente che ammiro di più, come romanziere e come drammaturgo».
Ci sono altri autori di oggi che ammira?
«Non leggo molta letteratura contemporanea, ma qui in Norvegia abbiamo Dag Solstad, indicato anche lui fra i favoriti per il Nobel. Lo meriterebbe».
Nel toto-nomi veniva menzionato anche un altro norvegese, Karl Ove Knausgård, che è stato suo allievo all’Accademia di scrittura di Hordaland e ha puntato molto sull’autofiction.
«Sono stato il suo insegnante per un anno. Lui era poco più che ventenne, io quasi trentenne. Siamo diversi, ma lo apprezzo e penso sia un buon candidato. Solo che lui è ancora abbastanza giovane, mentre Solstad ha 82 anni, ha meno tempo. Mi auguro, come sono stati dati diversi Nobel ad autori francesi, che il premio possa essere assegnato presto anche ad altri norvegesi».

Lei usa il nynorsk, una delle due forme di scrittura del norvegese, impiegata da un minoranza di cittadini (l’altra è il bokmål). Perché questa scelta?
«Conosco il bokmål, mi piace e me ne servo di tanto in tanto nelle email a destinatari che lo usano. Ma dove sono nato io il nynorsk è maggioritario, lo uso da quando ho imparato a leggere e scrivere. Anche il modo in cui in quella zona le persone parlano è molto vicino al nynorsk, così mentre scrivo posso sentire la voce di mia nonna, dei miei genitori, dei miei amici, del mio paesaggio...».
Quanto conta il paesaggio norvegese nella sua ispirazione letteraria?
«Moltissimo. Sono cresciuto nel villaggio di Strandebarm, vicino all’Hardangerfjord, immerso nello scenario del fiordo, ed è stato decisivo nel plasmarmi. Anche in questo caso, la questione non è autobiografica. Riguarda la mia voce come scrittore, creata dalla mia lingua e da questo paesaggio».
Sta già lavorando ad altri progetti?
«Sì, lavoro sempre a qualcosa. Proprio grazie alle speculazioni sul Nobel, sono entrato in contatto con l’australiano Gerald Murnane, un altro autore che avrebbe certamente meritato di vincere. Ho iniziato a leggerlo, l’ho apprezzato, così ho tradotto il suo romanzo Le pianure, che qui sarà pubblicato in primavera. Mi sono anche dedicato alla narrativa, ma non voglio pubblicare nulla l’anno prossimo. Un mio nuovo romanzo uscirà nel 2025».
Di che cosa si tratta? Quanto sarà lungo questa volta?
«Una dimensione normale (sorride), circa 250 pagine. E ci sono anche altri libri in arrivo, collegati tra loro ma non come la Settologia: a unirli è una comune ambientazione in un luogo fittizio, che ho immaginato in Norvegia: Vaim, che darà anche il titolo alla serie».
La vedremo in Italia fra qualche tempo?
«Innanzitutto, mi è stato detto da più persone che le mie opere teatrali e le mie narrazioni suonano molto bene in italiano. Non conosco la vostra lingua ma deve avere qualcosa che si sposa bene con il mio modo di scrivere. E poi, sì, mi piacerebbe tornare in Italia. Sono stato a Roma diverse volte. Un’occasione fu quando, nel 2009, Papa Benedetto XVI invitò autori e artisti da tutto il mondo in Vaticano. Ricordo che c’era anche Bob Wilson, con cui spesso ho lavorato e che mi ha anche mandato un bel disegno in occasione del Nobel. Io allora non ero ancora cattolico, ma quell’incontro non aveva a che fare con l’essere credente o meno. Era ispirato dal messaggio che gli artisti forse non hanno bisogno della Chiesa, ma che la Chiesa ha bisogno degli artisti».