La Lettura, 14 ottobre 2023
Sulla Slovenia
La guerra in Ucraina ha ridestato l’interesse per una parte d’Europa che solo di rado trova spazio nel dibattito pubblico. In questo senso l’Italia non sembra essere un’eccezione. Anzi. Il livello di conoscenza di ciò che si trova a est di Venezia è relativamente scarso. La gaffe di qualche anno fa di una concorrente del quiz televisivo di Raiuno L’eredità (ovvero che la lingua ufficiale della Slovenia fosse il finlandese) è una dimostrazione del vuoto cognitivo che va ben oltre il dato sulla lingua d’uso in questo o quel Paese. In effetti lo sloveno è parlato da poco più di due milioni di persone, soprattutto in Slovenia e nei Paesi vicini dove abitano comunità etnico-nazionali slovene, come l’Italia.
La Slovenia è una cerniera che va ben oltre la dimensione italo-slovena e congiunge i Balcani con la Mitteleuropa e il mondo mediterraneo, zona di contatto tra le tre grandi famiglie linguistiche europee: quella germanica, quella romanza e quella slava. Ovviamente non si tratta soltanto di intrecci linguistici; lo spazio sloveno ha visto nei secoli migrazioni slave e invasioni romane, incursioni ottomane e colonizzazioni veneziane, conquiste asburgiche e, nella storia più recente, la parentesi jugoslava dalla quale la Slovenia è stata la prima a staccarsi, in modo quasi indolore, ormai più di trent’anni fa.
Storia interessante, quella del territorio sloveno, divenuto teatro di due guerre mondiali. È proprio a pochi chilometri dal confine italiano che si trova Kobarid, nota in italiano come Caporetto, luogo di una tra le più famose débâcle militari, divenuta anche metafora, che pose fine ai combattimenti lungo il fronte dell’Isonzo durante la Grande guerra.
La Prima guerra mondiale portò con sé cambiamenti epocali dettati dalla dissoluzione degli imperi europei, in particolare di quello asburgico. Per più di mezzo millennio Vienna aveva governato non solo su quella che oggi è la Slovenia, lasciando un retaggio indelebile, ma, per limitarci all’Europa, su una grossa porzione della regione centrale del continente. Fu l’Italia a prenderne il posto in termini geopolitici, almeno nello spazio adriatico. Dopo la guerra un quarto della popolazione slovena entrò a fare parte del Regno d’Italia, Trieste compresa, all’epoca la città con il maggior numero di sloveni, 60 mila e forse più, praticamente il doppio di Ljubljana, l’odierna capitale.
Quella tra lo Stato italiano e gli sloveni è una relazione tutt’altro che semplice: durante il fascismo la politica di egemonizzazione etnica divenne sistematica e l’invasione della vicina Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale non fece che esasperare ulteriormente gli animi. Ljubljana divenne Lubiana, capitale di una nuova provincia annessa all’Italia, città recintata con il filo spinato per reprimere forme sempre più esplicite di dissenso antifascista. Nonostante fossero migliaia le vittime di deportazioni e fucilazioni il generale Mario Robotti esclamava: «Si ammazza troppo poco».
Come sia stato possibile instaurare un dialogo al termine del conflitto è da contestualizzare con le dinamiche della Guerra fredda. Se i primi anni postbellici furono contraddistinti da recriminazioni reciproche legate a chi dei due contendenti avesse più diritto ad avere Trieste e Gorizia, già poco dopo avere raggiunto un accordo l’Italia e la Jugoslavia finirono per essere tra i più proficui partner commerciali e politici. L’espulsione di Tito dalla famiglia sovietica rappresentò per l’Italia un colpo di fortuna, dal momento che allontanava gli eserciti del Patto di Varsavia dai suoi confini. La Slovenia socialista era quindi un cuscinetto e via via sempre più anche un interlocutore per mezza Italia, che da essa veniva scoperta anche attraverso la televisione di Capodistria, l’emittente di riferimento per la minoranza italiana dell’Istria, che però veniva vista anche dal pubblico italiano e rappresentò a partire dagli anni Settanta una finestra (e una vetrina) sulla Slovenia e il mondo jugoslavo – e per di più a colori, in un periodo in cui gli unici due canali della tv italiana trasmettevano in bianco e nero.
L’idea federalista che fossero le regioni uno dei propulsori dell’integrazione europea fece sì che perfino tra Stati con regimi politici, militari ed economici differenti (e rivali) prendessero piede forme di cooperazione transfrontaliera come l’Alpe-Adria, comunità che inizialmente riuniva Slovenia e Croazia, le regioni italiane Friuli-Venezia Giulia e Veneto, e le austriache Carinzia e Stiria, per poi, all’alba della caduta del muro di Berlino, allargarsi anche a Lombardia, Baviera, Ticino e verso l’Ungheria. In realtà il muro, da queste parti, è stato smantellato molto prima, pezzo per pezzo, mattone per mattone, gradualmente, dal dopoguerra in poi. Non c’è stato bisogno di aspettare l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea il 1° maggio 2004 o il 21 dicembre 2007, data dell’adesione all’area Schengen, per un agevole passaggio delle frontiere. Già nei decenni precedenti, ancora ai tempi della Jugoslavia, si entrava più agevolmente in Slovenia che non, ad esempio, in Svizzera o in Spagna. In anni più recenti, però, le frontiere si sono viste chiudere più che aprire, e non solo a causa del Covid. Per evitare l’ingresso di immigrati dal sud del mondo il governo di destra del premier precedente, Ivan (detto Janez) Janša, fece installare delle reti metalliche nei boschi al confine con la Croazia. Invano.
Questi boschi, che ricoprono praticamente metà del Paese, danno però alla Slovenia la possibilità di promuoversi come il cuore verde dell’Europa, con un’accoglienza turistica che si basa su relax e benessere. Se fino a una decina d’anni fa era la meta preferita per spendaccioni (e malviventi) che tentavano la fortuna nei casinò di Portorose e Nova Gorica, oggi la fanno da padrone resort termali e destinazioni gourmet. Proprio Nova Gorica, a due passi da Gorizia, sarà tra due anni la capitale europea della cultura. A convincere la giuria è stata la partnership transfrontaliera con Gorizia. Borderless, come annunciato dallo slogan. Senza confini sono già molte iniziative sportive, come il Giro d’Italia.
Un popolo di sportivi, gli sloveni, ma con un numero di abbonamenti teatrali maggiore del numero di abbonati al campionato di calcio. La cultura in generale ha un ruolo importante nella vita del Paese; non sono molti gli Stati che hanno nel proprio calendario una festa nazionale dedicata alla cultura, l’8 febbraio, che ricorda il loro poeta più importante, il romantico France Prešeren. Non stupisce quindi che quest’anno la Slovenia si sia ritagliata il ruolo di ospite d’onore alla Fiera internazionale del libro di Francoforte, dove, tra gli altri, porta uno dei suoi autori contemporanei più famosi, il filosofo cult Slavoj Žižek.Commentando recentemente la situazione politica globale, Žižek ha condannato il regime russo e l’aggressione in Ucraina, ma parlando dell’aiuto occidentale tutt’altro che disinteressato ha toccato un aspetto critico che molti in Slovenia sembrano «condividere»; la Slovenia però è fermamente inquadrata nelle proprie alleanze politiche (Ue) e militari (Nato), tanto più dopo avere conquistato il seggio di membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Tra disastri ambientali che quest’estate hanno colpito anche il nord della Slovenia, un sistema sanitario in affanno, un’economia legata all’andamento dei Paesi vicini, Germania in testa, e l’apprensione per conflitti che dall’Ucraina si espandono a vista d’occhio, il ruolo della Slovenia sarà quello di esigere il rispetto del diritto internazionale, aspetto importante per gli Stati medio-piccoli dell’area danubiana e balcanica. Non solo: rappresenta la base e la garanzia della loro stessa esistenza.